La storia della Notte della taranta. Dall’Istituto Carpitella alla Fondazione

La Notte della taranta. Dall’Istituto “Diego Carpitella” al progetto della Fondazione

di Sergio Torsello

da L’Idomeneo, Rivista della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione di Lecce, 9/2007, Edizioni Panico, 2008, pp 15-33

Sergio Torsello

Sergio Torsello

Nel mio intervento cercherò di ricostruire, ovviamente per grandi linee, il percorso che ha portato dalla nascita dell’Istituto “Diego Carpitella” al progetto della Fondazione “La Notte della Taranta”, tentando di dimostrare come questo percorso abbia incrociato e per alcuni versi si sia sviluppato proprio dentro la riflessione e le strategie identitarie locali, nonché nell’ambito dei processi di patrimonializzazione della cultura popolare salentina. La Notte della Taranta, com’è noto, nasce nel 1998, ma non nasce ovviamente dal nulla. Prima di questa data ci sono una serie di fenomeni, fatti e circostanze che vale la pena ricostruire. Quando tra il 1996 e il 1997(1) vede la luce l’Istituto Diego Carpitella, il fenomeno della riscoperta della musica di tradizione orale e quello del rinnovato fermento di studi attorno alla cultura del tarantismo non hanno ancora raggiunto la visibilità e le dimensioni attuali, ma hanno già acquisito una fisionomia ben definita. La ricostruzione storica di questo periodo e della genaologia di quello che d’ora in poi chiamerò per necessità di sintesi “movimento della pizzica”(2) è stata già tentata altre volte, ma ritornarci può essere utile per far luce sulle rispettive scelte degli attori in campo, per delineare uno scenario più ampio all’interno del quale collocare un evento come La Notte della Taranta e, infine, per sottolineare come il discorso sull’identità sia un elemento determinante o addirittura fondativo (non importa quanto consapevolmente o inconsapevolmente) anche per la vita di questo evento. Sulle complesse cause all’origine del revival salentino della pizzica esiste ormai una cospicua produzione saggistica(3). I contenuti di questa letteratura si possono schematicamente riassumere in alcuni temi chiave che proverò ad elencare. Da un punto di vista temporale la nascita di questo fenomeno viene collocata nei primissimi anni ’90. Una data estremamente significativa perché segnata da una duplice coincidenza: da un lato la ridefinizione degli assetti geopolitici che di fatto trasforma regioni come la Puglia (e il Salento) da “periferia sonnolenta dell’impero” a terra di transiti e approdi, un fenomeno di migrazioni epocali che sollecita i salentini a ripensare la propria identità attraverso la ricerca di elementi culturali in grado di definire l’appartenenza territoriale; dall’altro l’affacciarsi sulla scena dei primi processi di globalizzazione dell’economia(4). La riscoperta della musica tradizionale salentina è quindi vista come uno degli effetti diretti delle complesse interazioni tra dimensione globale e realtà locali, tipiche dell’era della globalizzazione. Quest’ultima infatti se da un lato per il suo stesso statuto interno tende ad omologare ogni differenza di stili di vita e modelli di consumo, imponendo il “verbo” dell’espansione illimitata del mercato, dall’altro enfatizza la ricerca identitaria, l’arroccamento in tante piccole patrie locali, spesso assunte come una sorta di vessillo, una forma di resistenza al potere omologante della globalizzazione. Una delle caratteristiche della nuova economia, sostiene ad esempio Aldo Bonomi in un libro bello e poco conosciuto di qualche anno fa, è quello di “scavare nella dimensione antropologica del soggetto: il sentire e lo spazio. Tutti i grandi sconvolgimenti della storia, le fasi di crisi, le svolte epocali, i cambiamenti turbolenti e iperveloci come appunto la globalizzazione, sono accompagnati da quei fenomeni di “perdita della presenza” direbbe De Martino o per usare l’espressione di Baudrillard della “perdita della propria ombra”. In queste epoche riemergono quelle “famiglie di pratiche sociali” contrassegnate da fasi di fuga, esodo, rivolta e soprattutto la “liberazione di nuovi spazi ed energie”(5).

Da queste brevi riflessioni si evince già un primo dato di estrema importanza e cioè il carattere ambivalente del fenomeno: il suo essere al tempo stesso dentro la “narrazione” della globalizzazione anche quando si dichiara in qualche modo contro di essa. Il revival salentino, del resto, non è un caso isolato nel mondo. Piuttosto – come dice Clara Gallini – esso si conforma ad uno standard internazionale. “Il rilancio della pizzica per quanto nasca e si affermi come fenomeno tipicamente salentino, può essere messo in parallelo, confrontato, con altri revival che stanno popolando la scena mondiale e che, a seconda dei casi, mettono in primo piano vari e diversi simboli di appartenenza considerati come propri e specifici: il recupero di un dialetto, un cibo, un costume, una danza, una musica. Le ragioni di ciascuna scelta non sono identiche, e si connettono alle particolarità delle storie locali: ma paradossalmente il modello cui si conformano è un modello internazionale (o meglio: sopranazionale). […] Ma perché questo rilancio abbia successo e riesca ad affermarsi come fenomeno condiviso e soprattutto accreditato, c’è anche bisogno di appoggiarsi sulla parola: non c’è revival senza i suoi miti e le sue storie, senza cioè tutta una necessari affabulazione, fatta di oralità e di scrittura (magari anche su Internet) e sostenuta da un’intellettualità locale. Ed è quest’ultima il soggetto che , alla fine, a titolo individuale o collettivo, si fa carico di valorizzare il prodotto culturale locale, sotto tutti gli aspetti: quello simbolico e quello economico”(6).

Il processo della riflessione identitaria nel Salento si salda infatti con il lavoro di lunga durata svolto da intellettuali e ricercatori locali che dopo la stagione del folk revival degli anni Settanta (penso a figure come Rina Durante, Luigi A. Santoro, Luigi Chiriatti, Daniele Durante, Luigi Lezzi, Brizio Montinaro) e attraverso gli anni ’80 e ’90 non hanno mai smesso di lavorare sul campo sia pur con esiti e motivazioni differenti. (7). A cavallo tra anni ’80 e anni ’90, però, fondamentale risulta l’intervento sul terreno salentino di uno studioso come George Lapassade che, con Piero Fumarola, avvia una significativa ricerca/azione sulla scena hip-hop salentina, in particolare con i Sud Sound System lavorando sulla commistione di linguaggi (non solo musicali) tra culture tradizionali e culture metropolitane. Lapassade, presente nel Salento sin dai tempi del “Ragno del dio che danza”, il progetto teatrale del 1981, è una figura cardine che influenzerà a lungo gli sviluppi della ricerca. A lui tra l’altro si deve il primo tentativo di introdurre il tema dell’identità nel dibattito sul tarantismo. Secondo Cosimo Colazzo per Lapassade “il tarantismo è il momento di massima definizione della cultura salentina, il luogo in cui la sua identità si riconosce e si forma” […]. “L’interesse per il tarantismo – scrive il sociologo francese – è un interesse per la costruzione collettiva dell’identità salentina, che è permanente. L’identità in fin dei conti, non è un dato, è un processo, è una costruzione, non è un’idea, ma si costruisce permanentemente.”(8) Si tratta di una novità importante perché per la prima volta nella riflessione sull’identità salentina si fa strada, dopo decenni di oblìo, la cultura popolare. Il tema della “salentinità”, in verità, è stato ripetutamente al centro delle riflessioni degli intellettuali locali nell’ultimo secolo. Ma si è trattato prima, in epoca post unitaria, di una rivendicazione fondata sulla “nobiltà storica delle origini”, come sostiene Mario Marti, e più recentemente (a partire dal dopoguerra) di un tentativo di “definirne l’identità antropologica” nell’ottica di una rivendicazione regionalistica (la richiesta di una Regione Salento). Secondo Marti, “la salentinità è soprattutto un sentimento, una condizione psicologica e intellettuale, in sostanza un privilegiato e totale rapporto d’amore nei confronti di tutti gli aspetti, le condizioni, le manifestazioni, del Salento e da parte di chi nel Salento riconosca e senta la propria “piccola patria”. Una piccola patria che sta come prefazione alla “patria grande” come immagine simbolo, “figura” di essa […] la salentinità è nella sua sostanza più segreta e intimamente vissuta la sublimazione spontanea, istintiva, autenticamente interiore, e dunque pura, disinteressata, metastorica, della “provincia salentina”(9). Tra il 1994 e il 1996 inoltre accadono una serie di eventi che determineranno una ulteriore complessità della scena salentina.

Nel 1994 torna in libreria dopo una lunga assenza La terra del rimorso e coincide con una stagione di fervida ripresa degli studi sul tarantismo(10), mentre nel 1996 esce Il Pensiero meridiano di Franco Cassano e nelle sale cinematografiche Pizzicata, opera prima del regista salentino Edoardo Winspeare, due avvenimenti che giocheranno un ruolo decisivo nell’evoluzione del movimento della pizzica. Il libro di Cassano, in particolare, riapre e riarticola la riflessione sul rapporto tra modernità e tradizione con significative ricadute sul piano dell’agire politico, in quanto si rivela una sorta di vademecum per sindaci, assessori alla cultura e più in generale per una intera classe politica che comincia ad impostare un lavoro culturale a partire dall’idea di un’autonomia del Sud che è inanzitutto “autonomia dell’immaginario”. E’ il Sud capace di pensare se stesso, facendo leva su quel sapere che già possiede, attento alla cura e al rispetto dei luoghi, un Sud che non è più il vaso di Pandora di tutti i mali della modernità, ma è capace di rovesciare in segno positivo tutti gli stereotipi che da secoli sono stati affissi sulle regioni (e sulle popolazioni) del meridione d’Italia(11). Il lavoro di Edoardo Winspeare invece è un esempio paradigmatico di come l’intellettualità locale giochi poi un ruolo decisivo nella valorizzazione dei “prodotti culturali locali”. Nella lunga fase di preparazione (durata più di due anni) Pizzicata diventa infatti una sorta di “cantiere aperto” nel quale centinaia di giovani si trovano a contatto con alcuni dei più importanti testimoni delle tradizioni popolari salentine (Uccio Bandello, Luigi Stifani, Uccio Aloisi, Luigi Cecere, il più giovane Pino Zimba per citare solo i più noti). Winspeare contribuisce in maniera determinante al processo di estetizzazione, di rivalutazione in chiave edonistica e ludica della pizzica, sganciandola da quella dimensione della sofferenza che era propria della cultura del tarantismo. L’attività di Winspeare, in realtà, è iniziata molti anni prima, all’epoca del documentario etnografico sul tarantismo (San Paolo e la tarantola, 1989) ma si è intensificata negli anni successivi con la stagione delle feste (circa 200 per sua stessa affermazione tenute tra il 1992 e il 1994, soprattutto nel Capo di Leuca: a Casarano, Depressa, Tricase, Novaglie, Presicce ecc.) che hanno segnato per vie del tutto non convenzionali la riscoperta della pizzica e della musica di tradizione orale salentina(12). Si consuma insomma anche nel Salento quel processo che Becattini ha definito con una “felice sintesi semantica” come il complesso e talvolta contraddittorio passaggio da una “coscienza di classe ad una coscienza di luogo”. Un cambiamento radicale del conflitto, dice Alberto Magnaghi che si spiega così: “Il territorio della società complessa e molecolare del postfordismo è divenuto il luogo di produzione del valore. La coscienza di luogo allude al riconoscimento da parte della comunità insediata del valore del patrimonio territoriale nella produzione di ricchezza durevole e di nuovi processi di autodeterminazione. La forma di appropriazione del valore aggiunto territoriale diviene l’oggetto del conflitto.”(13).

Sullo sfondo, ma non senza implicazioni importanti, agisce infine l’affermarsi su scala planetaria della world music, un altro prodotto tipico della globalizzazione, che indirizza il consumo musicale giovanile verso le tradizioni musicali non occidentali, cioè verso le “musiche del mondo” e per estensione verso tutto ciò che è “etnico”, “popolare”, esempio di metissage transculturale(14). Proprio a partire dagli anni Novanta – osserva giustamente Fabrizio Versienti(15) – dalla fondamentale (ma ancora non pienamente riconosciuta) esperienza del Sud Sound System “nasce una scena musicale autoctona, fiera di sé e delle proprie tradizioni ma ‘cittadina del mondo”’. E’ lì che ha iniziato a prender forma una nuova identità giovanile “glocal”. Il “successo” della “pizzica”, tra il 1992 e il 1998 è,  infatti, a dir poco straordinario. A Lecce è sempre attivo lo storico Canzoniere Grecanico Salentino guidato da Daniele Durante. Nel Capo di Leuca ha la sua base , con diramazioni in tutta la provincia, Edoardo Winspeare, a Muro Leccese nasce “Terra de Menzu”, esperienza animata dal giovane Claudio “Cavallo” Giagnotti e dal fotografo Fernando Bevilacqua, a Melissano sono attivi Luigi Cardigliano e Bruno Spennato, a Lecce muove i primi passi Arakne Mediterranea di Giorgio di Lecce, da Torrepaduli si dispiega l’intensa attività dell’unico gruppo attivo tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, i Tamburellisti di Torrepaduli di Pierpaolo De Giorgi. Più a Nord, tra Lecce e la Grecìa salentina, nasce il Canzoniere di Terra d’Otranto di Roberto Raheli, Luigi Chiriatti e Franco Tommasi, che nel 1994 pubblica il primo cd di riproposta, Bassa Musica, prima di sciogliersi nel 1996. Chiriatti e Raheli daranno poi vita ad Aramirè. In questi anni si formano quasi tutti i più importanti gruppi salentini. Nel 1992, nella Grecìa Salentina, Roberto Licci fonda i Ghetonìa, più o meno negli stessi anni nascono gli Alla Bua, poi gli Zoè di Lamberto Probo, Pino Zimba e Donatello Pisanello, più tardi i Menamenamò di Luigi Mengoli, gli Avleddha dei fratelli De Santis, e i Mascarimirì di Cavallo. Ad Aradeo, nel mitico Castello “Tre masserie”, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, vede la luce l’importante esperienza teatrale di Koreja, che il 29 Giugno del 1994 promuove La notte del rimorso, con gli “Ucci” accanto a Marcello Colasurdo degli Zezi e agli Almamegretta(16). Nella seconda metà degli anni ’90 , ancora Lapassade e Fumarola coinvolgono alcuni gruppi di riproposta in un altro esperimento “nelle” e “con” le culture giovanili, la technopizzica. Nasce l’associazione Salento Altra Musica e si organizzano le prime rassegne, i primi concerti fuori dal Salento. E’ un periodo di iniziative febbrili, informali, spontanee. I concerti si trasformano in vere e proprie feste, si riscoprono le “corti” e i centri storici come a Muro, campagne e masserie come nel Basso Salento, simbolicamente vissuti come scenari di una socialità perduta, di un ritrovato senso del “fare musica” in cui contano più le relazioni che la performance in sé; la pizzica diviene sempre più un “marcatore d’identità” da coniugare con i nuovi linguaggi giovanili (la cultura delle posse, la tecno, il dub). Si rivalutano le feste tradizionali, come quella di San Rocco a Torrepaduli, che tornano ad essere un luogo di incontro privilegiato (addirittura alcuni gruppi nascono proprio in questi contesti tradizionali). Da più parti si avverte un’esigenza di ritorno alle “fonti” (agli anziani ancora in attività, come gli “Ucci” e Luigi Stifani) e si riscoprono i pochi lavori di ricerca risalenti alla fine degli anni ’70: quello di Brizio Montinaro (Musiche e canti popolari del Salento vol.I e II, Lp, Albatros ,1977 e 1978, ristampa Aramirè, 2003) e il primo lavoro di riproposta del Canzoniere Grecanico Salentino,  Canti di Terra d’Otranto e della Grecìa Salentina, Fonit Cetra, 1977, due testimonianze che rimarranno, almeno fino al 1999, gli unici punti di riferimento per i gruppi di riproposta. E’ in questa fase che si avvia un prezioso lavoro di ricostruzione della memoria musicale salentina, poiché non c’è identità senza memoria. Ma anche la memoria non è un’entità fissa e immutabile nel tempo, piuttosto si configura come un processo eminentemente selettivo, che si determina nell’alternanza di ricordo e oblio. Fondamentale, in questo contesto, si rivela tra il 1999 e il 2002, l’attività della casa editrice Aramirè di Roberto Raheli, che pubblica notevoli materiali d’archivio raccolti da Luigi Chiriatti alla fine degli anni ’70(17).

E’ in questo quadro sommariamente delineato che nasce L’Istituto “Diego Carpitella”. L’iniziativa si pone l’obiettivo di intercettare le numerose istanze che vengono dalle diverse “anime” del movimento della pizzica. In particolare cerca di rispondere alla domanda di conoscenza (da parte del mondo giovanile), di studio e documentazione (dal versante dei ricercatori e degli studiosi), di visibilità da parte della moltitudine di musicisti e gruppi che animano la “scena della pizzica”, di valorizzazione e patrimonializzazione (dal versante politico istituzionale). L’iniziativa, è bene ricordarlo, si connota sin dall’inizio con una precisa identità politico- culturale. L’incontro preparatorio che si svolgerà a Melpignano, su iniziativa di Luigi Chiriatti, si terrà sotto l’egida dell’Istituto Ernesto de Martino di Sesto Fiorentino, ricollegandosi di fatto ad una precisa tradizione di studi sul mondo popolare e subalterno.

L’obiettivo, in estrema sintesi, è quello di avviare un lavoro di “documentazione e ricerca sulla cultura popolare”, ma anche – si legge nello statuto – “studiare il patrimonio culturale artistico del Salento (sia nelle espressioni della tradizione orale, che nei documenti storici, nei beni architettonici, paesaggistici di interesse archeologico ed etnoantropologico) individuare e valorizzare le sue peculiarità nell’ambito delle culture popolari dell’Italia meridionale e nel più vasto bacino del Mediterraneo”. Un programma ben preciso che prevede tra l’altro, con evidente riferimento alla musica, di “favorire ogni forma di creatività artistica ispirata a temi e linguaggi propri della cultura salentina” (18). Da questo sintetico panorama emerge dunque un altro significativo elemento: la Notte della Taranta nasce nel 1998 come il “prodotto” di un movimento ma è al tempo stesso il lievito, lo strumento che farà assurgere il fenomeno salentino ai livelli di notorietà attuali. Per avere un’idea dell’effetto moltiplicatore avuto dalla Notte della Taranta sulla scena musicale salentina, basti pensare che un’indagine del 1998 sui gruppi di riproposta della musica popolare salentina, censiva circa venti formazioni (19), mentre oggi se ne contano, senza esagerare, almeno il triplo. E non credo si forzi la natura dei fatti nel sostenere che l’ingresso sulla scena della Notte della Taranta abbia sia pur indirettamente influenzato quella reinessance salentina che si riflette nel cinema, nel teatro e nella letteratura. A proposito della nota questione dell’impatto del festival sul territorio, inoltre, sono ormai disponibili i risultati di una ricerca sul campo condotta nel corso dell’ultima edizione del festival da Giuseppe Attanasi, un giovane docente di economia politica alla Bocconi di Milano in collaborazione con l’Università del Salento e l’Associazione Salentina Studi Economici e Ricerche di Galatina. Nel corso dell’indagine, strutturata con questionari e interviste guidate, sono emersi alcuni dati significativi relativi alla provenienza geografica, all’età e alle motivazioni del pubblico partecipante, ma uno ci sembra particolarmente degno di nota: alla domanda “Per quale motivo sei nel Salento?” il 43% degli intervistati durante il Concertone ha risposto “proprio per la manifestazione”, mentre il 15% ha dichiarato di essere giunto in Salento anche per i quindici concerti del Festival itinerante(20). Vista da questa angolazione si può dunque affermare che la vicenda della“ Notte della Taranta” si configura come un progetto culturale multiforme che si rappresenta da un lato come l’evento simbolo del rinascimento della pizzica (ma diventerà ben presto una sorta di vero e proprio esempio paradigmatico su scala nazionale delle modalità più innovative di valorizzazione delle tradizioni culturali locali), dall’altro come il prezioso veicolo attraverso cui realizzare complesse politiche territoriali che vanno dal marketing, alla rivalutazione in chiave turistico-culturale dei patrimoni tradizionali, a vere e proprie strategie di consenso politico. Questo intento è chiarito da uno dei primi interventi di Sergio Blasi che in un’intervista del 2001 afferma: “Il mio primo interesse non era tanto rivolto alla pizzica, ma a comprendere come un’amministrazione comunale potesse sviluppare un intervento organico sul tema della tradizione”. E ancora: “il ragionamento sulla tradizione era parte di un altro obiettivo generale: utilizzare le risorse culturali per far conoscere questo territorio all’esterno. Questo è stato i passaggio che ci ha portato a pensare un’iniziativa che desse voce a tutti i gruppi di pizzica. Un’iniziativa da un lato di grande visibilità spettacolare e mediatica , dall’altro che cogliesse l’evento dell’aggregazione e della festa”(21). Nei primi mesi del 1997 l’istituto, guidato da un comitato scientifico composto da Gianfranco Salvatore (presidente), Luigi Chiriatti, Maurizio Agamennone, Eugenio Imbriani e Sergio Blasi, inizia la su attività .

E al termine di una lunga discussione interna, (l’idea iniziale, poi accantonata, prevedeva un raduno di tamburellisti da tenersi a Roca, sulla costa adriatica), vara il progetto della Notte della Taranta, la cui prima edizione si terrà, sotto la direzione artistica del musicologo Gianfranco Salvatore e dell’etnomusicologo Maurizio Agamennone, nel 1998(22). La manifestazione è strutturata secondo l’idea della “produzione originale”: un maestro concertatore (scelto tra i grandi nomi del jazz , del rock, della world music) è chiamato a rielaborare le musiche tradizionali salentine, guidando un’ensemble di musicisti provenienti in parte dai gruppi di riproposta, in parte da altre esperienze musicali. Il Concertone finale, che si tiene a Melpignano, è anticipato poche ore prima da concerti “a ragnatela” nei comuni della Grecìa Salentina e dell’Istituto Diego Carpitella(23). Le caratteristiche dell’evento (che poi saranno gli elementi fondamentali del successo) sono:

a) la non riproducibilità della manifestazione, la sua unicità, cioè un evento che si può seguire solo quella notte a Melpignano;

b) la scelta del nome che rimanda all’immaginario simbolico del tarantismo e quindi a tutto l’universo della transe come risorsa antagonista all’ordinario, alla musica che guarisce (malattie reali e malesseri immaginari), un simbolismo che viene veicolato inizialmente attraverso la circolazione nei centri sociali, ossia nei luoghi di produzione delle nuove controculture giovanili(24);

c) il collegamento con la riflessione identitaria: dal punto di vista musicale l’idea di ibridazione richiama l’idea di un’identitià aperta, fluttuante, inclusiva;

d) “l’istanza innovativa e sperimentale rivolta all’esterno”(25);

Ma c’è un altro elemento di non secondaria importanza. Perché il discorso identitario si affermi e si consolidi è necessario inanzitutto che sia condiviso. Ed è particolarmente significativo che si punti proprio sulla musica di tradizione orale perché –sostiene ad esempio Paolo Scarnecchia – “ ciò che contraddistinge e differenzia la musica di tradizione orale è la capacità di racchiudere e condensare in pochi elementi significati e valori dell’immaginario intimamente legati dell’identità sociale e culturale”(26). Emblematica a tal proposito la testimonianza di Sergio Blasi che rievoca così gli esordi dell’evento: “Un gruppo di giovani amministratori, a metà degli anni ’90 si è ritrovato per una coincidenza fortunata ad avere responsabilità di governo[…] ci siamo sentiti ad un tratto di poter decidere il nostro futuro e il nostro sviluppo. Lo straordinario patrimonio musicale ci è sembrato allora un’opportunità forte in grado di esprimere al meglio la metafora che questo territorio stava vivendo, terra d’incontro, di dialogo, di scambio”.

Sin dal suo apparire La Notte della Taranta divide il campo salentino: la polemica è accesa e senza esclusione di colpi. E scandisce tutte le fasi della vita dell’evento.

Un dibattito che schematicamente si può distinguere in tre fasi. La prima nel 1998, all’epoca della prima edizione vede tra i protagonisti Luigi Chiriatti, che abbandona il comitato scientifico sbattendo la porta, in aperto contrasto con l’idea di fondo della Notte che è quella della contaminazione dei repertori tradizionali con altri generi musicali contemporanei (come il jazz, il rock ecc.). In questa fase del dibattito, tutta giocata dentro la contrapposizione tra “puristi” e “contaminatori”, intervengono tra gli altri Roberto Raheli, Giovanni Seclì, Piero Fumarola, Daniele Durante, Giuseppe Tarantino. Il dibattito si rinnova, più o meno sulla stessa lunghezza d’onda nel 2001, con gli interventi di Giorgio Di Lecce, Eugenio Imbriani, Anna Nacci, Vincenzo Santoro, Gino L. Di Mitri e prosegue nel 2005 con gli interventi, seguiti all’articolo del giovane scrittore barese Mario Desiati, di Francesco Tornesello, Emanuela Angiuli, Luigi A. Santoro, Dinko Fabris ed altri. Nel 2006 infine si registrano i contributi di Roberto Cotroneo, (che parla di “happening oleografico e iniziativa mondana”) di Mario Proto e Luigi Lezzi. Ma nel 2005 esplode anche per la prima volta la polemica sull’identità politica della Notte della taranta, sulla sua natura di evento indistintamente di massa (come sostiene la sinistra) o espressamente di sinistra (come ritiene invece la destra) spia di uno scenario che si fa sempre più contrastivo e ricco di conflitti sul piano politico. In mezzo si registrano le acute riflessioni di un osservatore esterno come Sandro Portelli, i numerosi interventi critici di Luigi A. Santoro, di Vincenzo Santoro sul rapporto tra “movimento della pizzica” e le politiche delle istituzioni locali. Sono del 2004, infine, l’articolo di Gigi Spedicato sul “gigantismo dell’evento” e quello di un gruppo di intellettuali salentini (tra gli altri Marcello Strazzeri, Piero Manni, Luigi Za, Chino Salento, Antonio Prete, Mauro Marino) che invita a riflettere sull’alternativa tra una via “alta” (cioè la strada della “qualità dell’investimento culturale, nel tentativo di costruire una rappresentazione non illusoria del territorio”) e una “via bassa” (affidata alla produzione di massa) dello sviluppo locale(27). Si tratta di un dibattito complesso e articolato (che sarebbe auspicabile ricostruire con maggior precisione) all’interno del quale complessivamente le critiche si possono ricondurre ad alcuni temi essenziali:

a) la contrapposizione tra un approccio “filologico” e una modalità più creativa e dinamica di rielaborazione dei materiali tradizionali;

b) il rischio che si sottraggano risorse alla ricerca e alla documentazione,  presupposto fondamentale per ogni percorso di valorizzazione delle culture tradizionali e anche per la musica popolare;

c) gli scarsi risultati sul piano musicale;

d) il carattere “effimero” dell’evento;

e) le “promesse mancate” dell’istituto Diego Carpitella (soprattutto di aver convogliato ingenti risorse economiche sull’evento spettacolare a scapito della creazione di strutture per la ricerca e la documentazione).

Ognuno di questi punti, per gli evidenti elementi di inesattezza e talvolta di vera e propria faziosità che vi sono contenuti, richiederebbe una trattazione a sè stante, ma non è questa la sede per tentare tale ricostruzione. Qui basti sottolineare come dal semplice elenco degli attori intervenuti nel dibattito emerga un quadro significativo di quel general intellect che anima il movimento della pizzica e come queste polemiche, per dirla con Paolo Apolito tra i primi a riflettere sul rapporto tra identità locale e rivitalizzazione della cultura del tarantismo, non rispondano tanto “a criteri di spiegazione scientifica quanto a obiettivi, sociali, identitari, umani”.(28) Ed è estremamente interessante notare come nella prima fase la discussione rimanga circoscritta ad una fascia di “addetti ai lavori” (musicisti, ricercatori locali) mentre successivamente coinvolga intellettuali e docenti universitari che fino ad allora avevano se non snobbato quanto meno ignorato o scarsamente compreso l’entità del fenomeno. La Notte della Taranta nel frattempo prosegue il suo percorso di evoluzione, contrassegnato da alcune tappe fondamentali(29). Nel 2001, si registra la prima svolta: in seguito ad una ridefinizione degli assetti interni all’istituto Maurizio Agamennone e Gianfranco Salvatore abbandonano la scena per contrasti interni riguardanti l’organizzazione del festival e le attività dell’Istituto. “Lo scioglimento del direttivo dell’Istituto – ricorda Eugenio Imbriani – lascia a Sergio Blasi un grande cantiere” e di fatto determina l’intensificarsi dell’impegno politico nella gestione dell’evento.(30) Dal 2003 l’Istituto “Diego Carpitella” sarà guidato da Sergio Blasi in qualità di presidente dell’assemblea dei sindaci, affiancato da chi scrive in qualità di consulente scientifico. Il 2000 segna una prima tappa importante nella vita dell’evento che acquista sempre più la fisionomia di un vero e proprio festival. Due anni dopo, nel 2002, giunge il primo cospicuo finanziamento pubblico, la convenzione sottoscritta dalla Provincia di Lecce che affianca l’Unione dei Comuni della Grecìa, l’ente che sin dall’inizio sostiene il festival, garantendo un contributo di 50.000 euro annui che costituisce di fatto il primo esempio di consistente intervento pubblico nel campo della valorizzazione dei patrimoni tradizionali. Nel 2005 poi l’intervento della Regione Puglia (decisiva in questo senso l’elezione del presidente Nichi Vendola, da sempre convinto sostenitore dell’importanza dell’iniziativa) e della Provincia di Lecce determinano anche sul piano economico una nuova fase della vita dell’evento.

Dopo il 2002, tuttavia, la scena di fa più complessa perché il rilevante successo di pubblico e la risonanza mediatica della manifestazione determinano una crescita dell’interesse verso l’evento. Ma è nel 2003, con la scelta come maestro concertatore di Stewart Copeland (ex batterista dei Police ma anche autore nel 1984 di The Rhytmatist, un disco anticipatorio del fortunato filone della world music) che si realizza la prima vera svolta. La scelta di una pop star internazionale rientra in questo quadro strategico di innalzamento e potenziamento dell’esposizione mediatica come presupposto per consolidare l’evento su un piano sopranazionale. Una decisione che ha il merito di attirare sul territorio le attenzioni della stampa nazionale ed estera, ma segna anche l’inizio della fase in cui la Notte della taranta si configura come uno degli strumenti d’eccellenza capace di veicolare un nuovo “modello Salento”(31). Dopo l’edizione del 2003 infatti l’Ensemble La Notte della Taranta (il nucleo storico dei musicisti salentini protagonisti dell’evento) compie per la prima volta una tourneè fuori dal Salento. Questa tendenza sarà poi accentuata dal triennio (2004 – 2006) di guida nelle vesti di maestro concertatore da parte di Ambrogio Sparagna, etnomusicologo e musicista che con il suo progetto dell’”orchestra popolare” (e con il suo lavoro di rielaborazione più attento agli stilemi della musica di tradizione orale) segna anche un maggiore coinvolgimento del territorio contribuendo ad accentuare il carattere “di massa” dell’evento. Il 2003 insomma si registra una fase importante dell’evoluzione del progetto la Notte della taranta. Sintetizzando si può dire che si passa cioè da un’iniziativa (anche sofisticata) di “spettacolo e ricerca musicale” alla creazione di un vero e proprio evento, cercando di conciliare le esigenze della ricerca in ambito musicale e quelle più ampie della promozione del territorio.

La scelta di una pop star internazionale infatti è una scelta lungamente meditata e non casuale.

Nell’edizione del 2003 infatti la presentazione del nuovo maestro concertatore è accompagnata da un’intensa narrazione sulla musica salentina che sa confrontarsi con le musiche del mondo, sul Salento che riscopre e valorizza attraverso la musica di tradizione le sue radici mediterranee e la fa diventare il modello di una politica virtuosa.

Una scelta accompagnata da un vistoso potenziamento della struttura organizzativa e del lavoro sulla comunicazione. Un elemento, questo, prontamente colto da un’altra osservatrice esterna, Amalia Signorelli, antropologa al seguito di Ernesto de Martino nella celebre inchiesta del 1959, che riflettendo sul revival del tarantismo e della pizzica salentina sostiene: “Per celebrare questa tradizione, per recuperarla a fini identitari, si costruisce un evento, vale a dire la forma più tipicamente globale che negli ultimi anni ha assunto la partecipazione giovanile alla produzione e al consumo culturale. Ma è giusto: l’identità locale non acquista valore se non in un contesto che la rende visibile, che consente di spenderla a scala globale; e l’evento è la modalità organizzativa che meglio realizza questa inserzione”(32). Tra i molti meriti della Notte della Taranta (penso alla promozione di un territorio fino ad allora pressochè sconosciuto, alla ricaduta economico turistica, alla diffusione di una maggiore consapevolezza verso i temi della tutela del patrimonio etnomusicale locale) c’è sicuramente quello di aver aperto un dibattito su un tema cruciale: “l’uso pubblico della cultura popolare”, ovvero come dice Fabio Dei, sull’uso “della cultura popolare all’interno di politiche territoriali di conservazione e valorizzazione del patrimonio etnografico e delle identità locali”(33). Partendo dalla propria personale esperienza di antropologo e dal caso specifico della Toscana, Dei ricostruisce quel significativo passaggio da un’idea di “folklore e di cultura popolare ritenuta eticamente e politicamente progressista”, vista cioè come un “argine all’omologazione prodotta dal consumismo e dall’industria culturale, una forma di resistenza delle classi subalterne alla spersonalizzazione della società di massa, al feticismo delle merci”, ad un’idea di valorizzazione turistico culturale della cultura popolare, ma “senza un tentativo di ridefinire gli obiettivi complessivi delle politiche culturali del territorio e di capire quale ruolo possa svolgervi il patrimonio etnografico”(34).

Dei analizza soprattutto il caso della Toscana, dove il dibattito sulla cultura popolare si è aperto fin dagli anni ’80 (un dibattito che, per inciso, non ha avuto alcun riflesso nel Salento, dove di fatto si registra un vistoso ritardo negli aggiornamenti delle metodologie di indagine sul mondo popolare) e sottolinea la differenza tra un’epoca in cui negli assessorati alla cultura era implicita l’idea di “educazione delle masse” (un’idea per certi versi ingenua perché ancora legata al clichè della contrapposizione tra culture egemoni e culture subalterne) ad una realtà, quella odierna, in cui “gli assessorati alla cultura sono abbinati agli assessorati al turismo. La cultura popolare è classificata sotto la voce di ‘patrimonio’ o valorizzata in funzione del suo ritorno turistico”. Così – sostiene ancora Dei – la “nostra stessa percezione del territorio e della cultura cui apparteniamo si plasma in relazione alle caratteristiche dello sguardo turistico”(35).

Ed è proprio su questo tema del riuso a scopo turistico delle culture tradizionali, uno dei principali strumenti attraverso cui si realizzano i processi di patrimonializzazione (fenomeni ovviamente ben più complessi e articolati) che si apre una discussione che coinvolge la Notte della Taranta e ne determina le successive scelte(36). Una abbondante letteratura antropologica infatti da più di dieci anni mette a nudo una serie di problematiche connesse allo sviluppo di un cosiddetto turismo sostenibile, responsabile, etico, contrassegnato dal salto dalla “tradizionale dimensione di svago a quella dell’esperienza”, della ricerca dell’”autenticità” – scrive ad esempio Marco Aime – che alla fine rischia di produrre nuovi immaginari e nuovi “esotismi”. “Questa nuova idea del turismo, assecondata dalle comunità locali con la superficiale rappresentazione del patrimonio culturale attraverso eventi organizzati può portare a malintesi e stereotipi. Il turista dà delle chiavi di lettura che sono attivate in partenza e che finiscono per restituire un’immagine che è solo quella degli stranieri”(7). Pensare alla valorizzazione del patrimonio etnografico solo in chiave turistico–culturale è, insomma, un percorso da intraprendere con molta, estrema cautela e con la consapevolezza dei rischi che tutto ciò comporta. La decisione del passaggio dall’Istituto Diego Carpitella alla Fondazione La Notte della Taranta si spiega anche con queste riflessioni. Il progetto della Fondazione comincia a prendere corpo nel 2004, quando a fronte degli importanti risultati raggiunti si pensa da un lato ad una struttura che possa garantire una maggiore stabilità all’evento, non solo dal punto di vista economico ma anche organizzativo; dall’altro la necessità di un maggior radicamento territoriale dell’iniziativa attraverso una attività di ricerca, di studio, di documentazione, di didattica, di riflessione teorica. L’obiettivo, in estrema sintesi, è quello di evitare che La Notte della Taranta (il Salento) si trasformi “in un altro distretto del desiderio e dell’intrattenimento” per usare ancora le parole di Aldo Bonomi, una sporta di “Mirabilandia” delle culture popolari, risucchiato nel vortice dei “nuovi tribalismi” e dei vecchi “esotismi” di ritorno che si addensano sul revival salentino della pizzica.

In particolare la Fondazione, oltre all’organizzazione del Festival, dovrà occuparsi direttamente o in collaborazione con altre istituzioni (Università, associazioni, istituti culturali), di:

a) Formazione di giovani ricercatori, musicisti e operatori culturali (metodologia della ricerca sul campo, approfondimento delle tecniche strumentali, competenza in materia archivistica, tecniche della produzione discografica). Accanto a questa, fondamentale sarà anche l’attività di ricerca: avviare cioè delle vere e proprie campagne di rivelamento sul campo non solo nell’ambito della musica popolare, un settore nel quale in questi ultimi anni è stato fatto molto (ormai disponiamo di una notevole quantità di materiali, sicuramente di diseguale valore, ma che tuttavia costituiscono un ottimo quadro storico-etnomusicologico di forme e generi della musica tradizionale); meno è stato fatto nel campo della danza,  un altro bene immateriale sul quale invece è scarsa la documentazione.

Ma molto resta ancora da fare nel campo della “religiosità popolare”, dell’etnobotanica, della medicina popolare (pensiamo ad esempio alla cura popolare dell’epilessia, “il male di San Donato”), dei saperi naturalistici, e penso anche alla storia culturale del tarantismo che resta in parte ancora da ricostruire nelle sue declinazioni locali, con significative novità che potrebbero emergere da una più approfondita ricognizione storica ed iconografica. Ma sempre più urgente appare la necessità – come osserva Giuseppe M. Gala – di “nuove metodologie di analisi” per affiancare allo studio dei repertori tradizionali quelli “neo” giovanili”(38);

b) documentazione. Sotto questo profilo prioritaria risulta l’istituzione di un Archivio Sonoro della musica tradizionale salentina che preveda l’acquisizione dei materiali già editi, il censimento di tutti gli archivi pubblici e privati contenenti documenti sonori originali della musica di tradizione orale salentina, e quindi, ove possibile, la raccolta e fruizione degli stessi materiali. Ma credo sia anche fondamentale la creazione di biblioteche tematiche (una biblioteca di etnomusicologia, ad esempio, e la realizzazione del progetto già avviato nel 2004, ma non più realizzato, di una Biblioteca storica sul tarantismo che raccolga tutti i testi apparsi sul tarantismo dalla prima fonte conosciuta, il Sertum Papale De Venenis del 1362, fino alla letteratura attuale che intreccia revival della pizzica e cultura del tarantismo), una banca dati sulla lingua e la cultura “grica” , un archivio del “movimento della pizzica”(39).

Penso inoltre alla creazione di un ecomuseo della musica di tradizione orale salentina. Per quanto io condivida le riserve di una certa antropologia sul carattere “elitario” delle strategie di conservazione museale delle culture popolari, penso ad un museo che non sia solo la rappresentazione visiva di una cultura locale, ma che interagisca con il territorio secondo le più moderne acquisizioni nel campo della museografia. Un luogo aperto e dinamico, capace di rappresentare la ricchezza delle stratificazioni storiche che caratterizzano un territorio. Ma anche un luogo che punti molto sulla didattica. Non solo quella tradizionale dedicata all’apprendimento delle tecniche strumentali ma anche altre forme di recupero e valorizzazione dei saperi tradizionali.

E’ quanto suggerisce ad esempio una recente esperienza svolta nella città di Taranto, dove sono stati attivati dei laboratori dedicati alle mamme di bambini che vivono in alcuni quartieri “a rischio”, all’interno dei quali si recuperano tecniche di confezione di abiti settecenteschi. Tali abiti, utilizzati come costumi di scena, sono oggi commissionati da alcuni importanti teatri italiani.

Questo mi sembra un bell’esempio di rifunzionalizzazione dei saperi culturali locali. Credo, inoltre, che la Fondazione dovrà anche farsi carico della promozione di iniziative per la tutela dei beni immateriali. Non tanto e non solo alle iniziative volte ad ottenere la tutela da parte dell’Unesco del patrimonio etnomusicale salentino, che è certamente uno dei temi di più stringente attualità, ma che di fatto immette i patrimoni tradizionali in un controverso circuito mondiale di mercato dell’esotico.

In particolare mi riferisco alla schedatura e mappatura dei beni immateriali: cioè feste,  riti, cerimonie, danze, culture materiali. Un tema anche questo di grande attualità nel campo degli studi demoetnoantropologici che pone problemi specifici di catalogazione, registrazione, identificazione, salvaguardia e valorizzazione(40). Scopo della Fondazione, inoltre, dovrà essere quello di creare infrastrutture di supporto al “movimento” della pizzica (destinazione di fondi e finanziamenti per le produzioni discografiche, la costruzione di sale prove, sale di registrazione ecc.). Infine, ma questa è solo una mia personale convinzione, credo che la Fondazione dovrà essere anche una sorta di “laboratorio politico” nel quale ripensare un nuovo modello di sviluppo per il Salento, un “luogo” nel quale “l’insorgenza identitaria sia politicamente reinterpretata come energia costruttiva”, utile alla crescita di un’idea di sviluppo più in sintonia con le peculiarità ambientali e socioculturali locali, con la memoria dei luoghi e della gente che ci abita. Un laboratorio per ridare nuova linfa alle parole della politica, per riempirle di contenuti nuovi.

Personalmente sono convinto che l’identità non esista, che sia un costrutto sociale, “un processo” , per dirla con Francesco Remotti, “caratterizzato da una doppia finzione: in primo luogo perché è costruita e in quanto a sua volta occulta le operazioni che la pongono in essere”. L’identità infatti non “inerisce all’essenza di un oggetto, dipende dalle nostre decisioni”(41).

Come sottolinea giustamente Fabio Dei, “dopo aver ampiamente contribuito alla diffusione di un lessico culturalista e relativista, di sensibilità e rispetto delle differenze, l’antropologia ha dovuto fare autocritica ”sottoponendo ad una seria revisione epistemologica alcuni concetti come identità, cultura, tradizione. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta è accaduto che tali concetti si siano compromessi con pratiche politiche decisamente reazionarie e assolutamente pericolose. Tre esempi tra gli altri possibili: il razzismo differenzialista della nuova destra francese, il leghismo italiano, le guerre “etniche” nei Balcani”(42).

La critica di “una visione fissista ed essenzialista dell’identità”(43) ritengo sia un contributo importante perché svela come le retoriche identitarie, anche quando si ammantano di una veste aperta, fluida e “plurale” in realtà si costruiscono sempre attraverso strategie di distinzione ed esclusione che nascondono conflitti di potere tra gruppi umani, la competizione per l’accesso a risorse che sono tanto di ordine economico quanto di carattere simbolico. Se da un lato considero estremamente importante questo contributo dell’antropologia italiana al dibattito salentino (penso al lavoro di Giovanni Pizza che per primo ha introdotto questi temi nel dibattito locale, in particolare il tema della patrimonializzazione della cultura del tarantismo) al tempo stesso credo che la sola indicazione antiessenzialistica sia insufficiente a fornire risposte adeguate sul piano operativo alle complesse domande attuali(44).

Essa costituisce l’elemento fondamentale di una maggiore consapevolezza dei rischi che si corrono, di fronte ai quali è necessario tenere alta la guardia della critica, ma non riesce a farci compiere il passo successivo che credo debba consistere, per citare ancora Remotti, nell’andare “oltre l’identità”. Per questo credo sia doveroso e necessario tentare di recuperare questo fermento identitario, tradurlo in una nuovo linguaggio politico che neutralizzi le pericolose derive innatiste, naturalizzanti, e sia capace di valorizzare quegli elementi positivi, anche creativi, che provengono da tali processi (penso ad una nuova sensibilità ecologica, alle crescenti domande di tutela dei beni pubblici e di democrazia partecipata che emergono anche da significative esperienze di social networking come la web community Pizzicata.it , alla domanda di un nuovo “legame sociale”, quello che Bernard Cova, il teorico del “marketing tribale” o “mediterraneo”, individua nella tendenza del consumo postmoderno alla ricerca di beni che rievocano un “radicamento” territoriale). Solo così, forse, il lungo e difficile lavoro di questi ultimi dieci anni non si risolverà in un’altra, bruciante, occasione mancata.
1) Dico tra il 1996 e il 1997 perché l’istituto nasce nei primi mesi del 1997 ma l’incontro preparatorio dal titolo Memoria storica, cultura del territorio: problemi di conservazione, diffusione, prospettive future, si tenne a il 18 dicembre del 1996 a Melpignano. All’incontro erano presenti Cesare Bermani, Luigi Chiriatti, Ivan Della Mea, Bruno Cartosio, Antonella de Palma.

2) Per “movimento della pizzica” intendo quel composito insieme di “attori sociali” e politici che animano la scena salentina della pizzica: musicisti, intellettuali, studiosi locali, ricercatori, giovani artigiani (soprattutto costruttori di tamburelli), editori, ma anche amministratori locali, operatori culturali.

3) Alcune analisi sono contenute in Il Ritmo meridiano. La pizzica e le identità danzanti del Salento, V. Santoro – S. Torsello a cura di, Lecce, Aramirè, 2002), nei saggi introduttivi a La tela infinita. Bibliografia degli studi sul tarantismo mediterraneo dal 1945 ad oggi (Mina, Torsello , Besa, Nardò 2006), in Terra salentina. I Sud e le loro arti (Fumarola a cura di, Arnesano 2001) negli ultimi numeri di “Melissi”, la rivista edita da Besa (AAVV, 2005, 2006 e 2007) e più recentemente nel volume Danze di sfida e di corteggiamento ( Fumarola, Imbriani a cura di, Besa 2007) che si occupa di analizzare i meccanismi di “istituzionalizzazione” delle pratiche di reinvenzione (o vera e propria invenzione) di tradizioni locali (come la danza e la musica).

4) Anche sul piano economico gli anni ’90 sono anni di notevoli cambiamenti: la progressiva marginalità dell’agricoltura (si pensi alla fine della coltura del tabacco che ha segnato per più di un secolo l’economia e la cultura materiale locale), la notevole crisi di un comparto (calzaturiero, tessile e abbigliamento) che fino agli anni ’80 era considerato tra i primi distretti industriali d’Italia, e parallelamente l’aumento esponenziale di servizi e piccola industria. A titolo di esempio è appena il caso di ricordare che nel 1985 il settore calzaturiero contava solo nel Sud Salento 5.000 addetti e un fatturato di 160 miliardi.

5) Aldo Bonomi, Il distretto del piacere, Torino, Bollati Boringhieri 2000, pag.19 e ssgg.

6) Cfr.: Clara Gallini, Intervista, in V. Santoro, S. Torsello, a cura di, Il ritmo meridiano, cit., Aramirè, Lecce 2002, pag. 162.

7) Anche nel campo della ricostruzione della storia della riproposta della musica popolare, a partire dall’esperienza del Canzoniere Grecanico Salentino nei primi anni ’70, esiste ormai una abbondante, anche se ancora parziale, letteratura. In particolare si veda Luigi Chiriatti, Opillopillopiopillopillopà.Viaggio nella musica popolare salentina (1970-1998), Lecce, Aramirè, 1998; Daniele Durante, Spartito (io resto qui). Storie e canzoni della musica popolare salentina, 2005, e Pierpaolo de Giorgi, La pizzica pizzica. La musica della rinascita. La tarantella del tarantismo e la sua resurrezione. Struttura musicale, stato dell’arte e neotarantismo, Lecce, Luca Pensa editore, 2003, che focalizza l’obiettivo sull’esperienza dei Tamburellisti di Torrepaduli.

8) George Lapassade, Intervista sul tarantismo, Madona Oriente, Maglie 1994. Una eloquente ricostruzione del contributo di Lapassade nella tematizzazione di quello che poi sarà definito tarantamuffin è in Goffredo Plastino, Mappa delle voci. Rap, raggamuffin e tradizione in Italia, Roma, Meltemi, 1996.

9) Cfr. Mario Marti, Alla ricerca della salentinità, in “Apulia”, IV, dicembre 2004, pp. In questo articolo che riprende e rielabora un precedente intervento apparso nel 1979 su “Nuovosalento”, Marti passa poi ad elencare le “tipiche tendenze della popolazione salentina… La vocazione naturale al bello della poesia, della letteratura, delle arti figurative, al rigore del ragionamento sistematico e costruito, non privo di cavillosità… E ancora una sorta di fatalistica lentezza levantina, incline alla rassegnazione e all’indifferenza passiva, imperturbabile, ironica”. Sul tema della salentinità come “progetto politico” si veda anche il contributo di un salentino d’adozione come Enzo Panareo, Salentinità e prospettive in “I Salentini”, anno I, n.o, Marzo 1987, pp. 8-9. Il dibattito sulla “salentinità” ha avuto anche una perdurante declinazione letteraria. Un classico esempio è Finibusterrae di Luigi Corvaglia (ed.or. 1936, nuova edizione, Congedo, Galatina 1981). Per un aggiornamento (e alcune rapide ricostruzioni del dibattito) vedi “Almanacco Salentino”, 2005, speciale Modello Salento con interventi di scrittori, sociologi, storici.

10) Per una rassegna critica degli studi del periodo vedi La tela infinita, cit., Besa, 2006.

11) Oltre al citato testo di Cassano vanno segnalati almeno due altri volumi che hanno avuto un peso importante nell’ambito di quella che è stata definita la “rinascita meridiana”: L’identità meridionale. Forme della cultura mediterranea, di Mario Alcaro, Torino, Bollati Boringhieri, 1996 e, più attinente alle problematiche locali, quello del poeta e operatore culturale pugliese Giuseppe Goffredo, Cadmos cerca Europa. Il Sud fra il Mediterraneo e l’Europa, Torino, Bollati Boringhieri 2000.

12) Edoardo Winspeare, Intervista, in V. Santoro S. Torsello, Il ritmo… cit. pag.172. Sull’attività cinematografica di Edoardo Winspeare vedi Francesco Accogli e Virginia Peluso a cura di, Viaggio nel cinema di Edoardo Winspeare, Tricase, Edizioni dell’Iride, 2003.

13) Alberto Magnaghi, Il progetto locale, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pag.233.

14) Per una critica dell’ambiguo concetto di world music, “una rete globale per lo smercio di etnicità ballabili e alterità esotiche nella ‘mappa’ dei prodotti e dei piaceri del mondo”, come lo definisce Steven Feld, vedi i saggi contenuti nel numero monografico di “EM, Rivista degli archivi di Etnomusicologia”, n.s. numero 1, 2003 (con interventi di Denis Costant Martin, Steven Feld, Giovanni Giurati ed altri).

15) Cfr.: Fabrizio Versienti, Musica, in “Annuario della cultura salentina”, Lecce 2007, pag. 7.

16)Cfr.: Franco Ungaro, Dimettersi dal Sud. I cantieri teatrali Koreja, Bari, Edizioni Libreria Laterza, 2006.

17) Le vicende di questo periodo cruciale andrebbero ricostruite con maggiore precisione non tanto per distribuire medaglie e stabilire improbabili primogeniture quanto per cogliere appieno le dinamiche evolutive del “movimento”, le molteplici strategie reinventive, il ruolo dei vari attori, quello, fondamentale, delle case editrici (chiusa l’esperienza con Aramirè Luigi Chiriatti fonda, nel 2002, le edizioni Kurumuny; l’editrice Besa di Livio Muci, ad esempio, pubblica, tra il 1999 e il 2007, quasi trenta titoli dedicati al tarantismo e alla cultura popolare salentina) il consolidarsi di un ruolo “attivo” del mondo politico e degli intellettuali locali.

18) Si veda lo statuto dell’Istituto Diego Carpitella consultabile sul sito della Notte della taranta, www.lanottedellataranta.it.

19) Luigi Chiriatti, Opillopillopiopillopillopà. op. cit., Lecce, Aramirè, 1998. Appena quattro anni dopo un’inchiesta sui gruppi di riproposta ne censisce circa sessanta. Cfr.: Di Lauro Cinzia (a cura di), Dossier: La pizzica ai tempi di Internet, in “Almanacco Salentino”,XIII, 2002, pp.145 -175.

20) Nel corso dell’indagine sono emersi altri elementi di notevole importanza come, ad esempio, la consistente percentuale di nuovi partecipanti che affiancano un pubblico già “fidelizzato”, a testimonianza della forte capacità di attrazione che l’evento ancora esercita a dieci anni dalla sua nascita. I dati definitivi della ricerca sono ancora in fase di elaborazione, ma una prima significativa analisi è in Giulia Urso, Effetti economico–sociologico–turistici della valorizzazione del patrimonio culturale salentino. Il ruolo del Festival della “Notte della taranta”, Tesi di laurea, Università del Salento, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Corso di laurea in Lingue Moderne per la Comunicazione Internazionale, anno accademico 2006/2007, relatore prof. Giuseppe Attanasi.

21) Sergio Blasi, Intervista, in V.Santoro e S. Torsello, Il ritmo meridiano , cit. Aramirè, Lecce, 2002 pag.181 e ssgg.

22) Fondamentale all’epoca della prima edizione risulta l’intervento dell’allora Consorzio dei Comuni della Grecìa Salentina, guidato dall’avv. Massimo Manera, che affianca l’Istituto Carpitella nell’organizzazione della manifestazione. L’istituto nasce invece come un’associazione di comuni (Alessano, Cutrofiano, Sternatia, Melpignano e Calimera, ora non più nell’Istituto) cui si aggiungerà in seguito la Provincia di Lecce. Il cuore pulsante dell’iniziativa è dunque la Grecìa Salentina, un’area caratterizzata dalla sopravvivenza di una minoranza linguistica, dove da alcuni anni (grazie anche alle opportunità offerte dalla legge 482 del 1999) una nuova generazione di amministratori comincia a riflettere sulle possibilità di recupero e valorizzazione in chiave identitaria dell’antico idioma “grico”. Nella fase organizzativa dell’evento, inoltre, un ruolo importante è affidato (dalla prima edizione fino al 2004) a Mario Blasi, un operatore culturale di Melpignano.

23) Un articolo di Maurizio Agamennone sugli scopi e le attività del “Carpitella” chiarisce bene il progetto: “Fra le attività dell’Istituto è la Notte della Taranta, un progetto annuale di spettacolo, cui partecipano spalla a spalla musicisti salentini e di altra provenienza, fondato sulla persuasione che le musiche tradizionali salentine (non solo la pizzica!!!) possano costituire la sorgente per una scrittura originale e di grande qualità, capace di parlare a tutti, non soltanto ai musicisti e cultori locali. […] per afflusso di pubblico e originalità della proposta musicale ritengo che il progetto La Notte della Taranta possa essere considerato come una delle iniziative più importanti di spettacolo e ricerca musicale realizzate nel Salento, con un “occhio di riguardo” verso il mondo”. Cfr. Maurizio Agamennone, Pizzica e tamburello icone di antico prestigio, “Quotidiano”di Lecce, Martedì 4 Luglio 2000, pag.7.

24) Paolo Scarnecchia, Musica popolare e musica colta, Jaca Book, 2000, pag. 11.

25) Cfr.: M. Agamennone e G. Salvatore, 24 Agosto 1999. Il ritorno della Taranta, in “Melissi”, 1, Luglio 1999, pp.28 -31. Questo fascicolo della rivista, con interventi di vari musicisti salentini impegnati nell’evento, restituisce in maniera emblematica il clima che si respirava dopo la prima edizione della manifestazione.

26) Un attento osservatore della realtà musicale salentina come Felice Liperi sostiene che ci sono “alcuni elementi specifici della pizzica tarantata che giustificano ampiamente il suo fantastico rilancio: la sua straordinaria universalità ludica, ritmica e melodica incomparabile con le altre tradizioni musicali italiane. Proprio questa universalità giustifica l’incredibile aumento degli esecutori partecipanti al fenomeno pizzica cioè gli appassionati del tamburello”; c’è poi “il forte senso di identità che esprime; le ricerche avviate a partire dalla Terra del rimorso in poi coincidono nell’affermare con forza il senso di alterità e nel contempo il radicamento nella cultura contadina salentina di questo rituale estatico. Questo forte senso di identità è un elemento di straordinaria attrazione soprattutto per il pubblico giovanile che – come nei casi precedenti del reggae e dell’hip hop – si è mostrato fortemente attratto dalla culture radicate come la musica etnica. La sparizione della tarantola – prosegue ancora Liperi – ha poi aumentato il fascino del tarantismo come teatro di una possessione ritualizzata, una performance psico–fisico- musicale. Una specificità che ritroviamo nei rituali liturgici popolari e comunitari della musica techno. C’è ancora più di un elemento che avvicina la pizzica alla coralità di certi rituali pop, il fatto che venga consumata collettivamente in una sorta di performance che coinvolge contemporaneamente, confondendone i ruoli, pubblico e musicisti. A questa dimensione performativa contribuisce il fatto che la pizzica tarantata sia soprattutto un ballo, un grande ballo collettivo a cui possono partecipare: bambini come anziani, giovani rapper e performer di musica popolare secondo un procedimento che rafforza quel senso di universalità a cui si faceva cenno sopra. Cfr. Felice Liperi, Il nuovo rinascimento della pizzica. Alcune riflessioni, in “Terra salentina. I Sud e le loro arti”, Arnesano 2001, pp.83 -86.

27) Per un elenco completo (davvero sterminato) degli articoli apparsi sulla stampa locale si veda la rassegna stampa completa consultabile nella sede dell’Istituto “Diego Carpitella” presso il Comune di Melpignano.

28) Paolo Apolito, Tarantismo, identità locale, postmodernità, in Di Mitri Gino L. (a cura di) Quarant’anni dopo De Martino. Atti del convegno internazionale di studi sul tarantismo. Galatina 24 -25 Ottobre 1998, Besa, Nardò, 2000, pp.

29) Per una ricostruzione delle varie fasi del progetto La Notte della Taranta vedi il recente La Notte della taranta (1998 -2007), edizioni “qui Salento”, a cura di Dario Quarta, 2007.

30) Sul “modello – Salento” , il progetto per il rilancio del settore turistico fondato sulla “forte identità locale”, sulla “sostenibilità” e sulla “dimensione della qualità e del vivere bene” si veda Stati generali del turismo, atti del convegno del 18 -19 novembre 2004, pubblicazione a cura della Provincia di Lecce, Alessano, Pubbligraf, 2005.

31) Cfr.: Eugenio Imbriani, La sfida della ricerca in Dario Quarta a cura di, La Notte della Taranta (1998-2007), cit, pag. 135.

32) Sergio Torsello, L’eredità intellettuale di Ernesto de Martino, Intervista ad Amalia Signorelli in “Apulia”,II, 2005, pag. 105.

33) Fabio Dei, Beethowen e le mondine. Ripensare la cultura popolare, Torino, Bollati Boringhieri, 2002., pag.30

34) Fabio Dei Beethowen, cit,. pag.30

35) Fabio Dei, Beethowen..cit. pag. 33

36) Sulle complesse dinamiche dei processi di patrimonializzazione (che possono essere “indotti” dagli stati nazionali o promossi dalle comunità locali, in ogni caso con gli stessi esiti in termini di oggettivazione del patrimonio culturale come fondamento del discorso identitario e delle strategie politiche ad esso connesse) si veda Antropologie, numero monografico dedicato a Il patrimonio culturale (numero 7, 2006) diretta da Ugo Fabietti con interventi di Chiara Alfieri, Michael Herzfeld, Irene Maffi, Berardino Palumbo, Dominique Poulot, Lina Gebrail Tahan.

37) Marco Aime, L’incontro mancato. Turisti, nativi, immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pag. 10 e segg.

38) Cfr. Giuseppe Michele Gala, Tenere l’imprendibile, ossia tutela dell’immateriale, in “Melissi”, n.14/15, 2007, pagg. 21 -26:25. “Già oggi, l’antropologia della danza, deve affiancare all’analisi dei repertori tradizionali quelli “neo giovanili”. Sulla pizzica pizzica tradizionale ha preso il sopravvento la neopizzica, i balli ‘n copp’o tammurre diventano “neo tammurriate” giovanili che invadono e sostituiscono tempi, luoghi e ruoli dei vecchi rituali delle feste religiose mariane. Queste trasformazioni, forse provvisorie e di moda passeggera, forse di nuovo radicamento, rappresentano comunque nuovi terreni di indagine e meritano nuove metodologie di analisi”.

39) E’ di queste settimane la notizia della creazione di un Archivio Sonoro della musica di tradizione orale in Puglia. Su questa meritoria iniziativa  promossa da Vincenzo Santoro, vedi Antonella Gaeta, Un archivio digitale salverà 50 anni di musica pugliese, in “La Repubblica Bari”, Sabato 6 ottobre, 2007.

40) Per una visione d’insieme delle problematiche relative al tema della tutela dei beni immateriali vedi G. M. Bravo, R. Tucci, I beni demoetnoantropologici, Carocci, 2006. Ma si veda anche, per una specifica attenzione alle questioni politico culturali, e in particolare al dibattito seguito dall’adesione dell’Italia alla convenzione dell’Unesco per la tutela del patrimonio intangibile, l’ultimo numero di “Melissi” (Besa, 2007) con interventi di Paolo Apolito, Fabio Dei, Roberta Tucci ed altri.

41) Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Bari 1996, pagg. 5 e 38.

42) Fabio Dei, Beethowen, cit. pp.36 -37.

43) Francesco Remotti, Contro l’idenitità, cit. Laterza Bari 1996, pag.5

44) Sul lavoro di Giovanni Pizza di indagine delle “pratiche contemporanee di tarantismo” si veda Tarantismi oggi: un panorama critico sulle letterature contemporanee del tarantismo (1994 -1999), “A.M.” 7 -8, 1999, pp. 253 -274; Lettera a Sergio Torsello e Vincenzo Santoro sopra il tarantismo, l’antropologia e le politiche della cultura, in V. Santoro e S. Torsello a cura di, Il ritmo meridiano.La pizzica e le identità danzanti del Salento, Aramirè, Lecce 2002, pp.43 -63. In realtà una interessante indicazione operativa la propone lo stesso Pizza in un recente intervento: “Il dibattito salentino ci lascia un felice insegnamento: la produzione di discorsi sul patrimonio culturale è già essa stessa un bene diffuso in Salento. Per questo immaginerei che il Salento oggi facesse tesoro del patrimonio riflessivo sviluppato negli ultimi anni, e che le istituzioni si fermassero a riflettere sulla possibilità di una nuova fase di ‘redistribuzione’ del capitale sociale e culturale accumulato, nei termini di una estensione degli spazi democratici, a partire dalla comunicazione pubblica del sapere.” Cfr.: Giovanni Pizza, Taranta, politica e democrazia, in “Almanacco Salentino” 2005, pag.153

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