Ilva, acciaio tra gli ulivi

da industria avveniristica a minaccia per il territorio, storia di un declino

di Vincenzo Santoro

da Eco-News periodico, marzo-aprile 2013

ilva1Il 10 aprile 1965 il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat si recò a Taranto per l’inaugurazione ufficiale del Centro siderurgico “Salvino Sernesi”, poi diventato “Ilva” dopo la privatizzazione. Nel discorso che tenne in quella occasione storica, il presidente volle assicurare agli «italiani del Mezzogiorno» che «lo Stato ha preso effettivamente e seriamente coscienza della realtà meridionale e si adopera per mutarla». Il grande stabilimento tarantino dunque, uno dei più grandi investimenti pubblici del dopoguerra nel nostro Paese, aveva come finalità principale quella di intervenire sulle piaghe storiche del Sud, attraverso la creazione di una fabbrica moderna e competitiva, che avrebbe dato lavoro – direttamente e indirettamente – a decine di migliaia di persone, e avviato un virtuoso processo di sviluppo locale.

Evidentemente, non si trattava solo di cambiare un’economia, ma, per usare le parole del giornalista Lino Patruno nell’introduzione ad un libro intenso e dolente, Invisibili. Vivere e morire all’Ilva di Taranto, di Fulvio Colucci e Giuse Alemanno (edizioni Kurumuny 2011), addirittura un’antropologia. La grande fabbrica doveva «far nascere il metalmeccanico dove c’era sempre stato il contadino, doveva introdurre l’industria come il tempio profetico di un uomo nuovo da creare, di una religione da diffondere e di un tempo diverso da inventare, doveva riscattare la campagna e proiettarla in un futuro da santificare».

Ciminiere da “magnifiche sorti e progressive”, che servivano a far dimenticare il passato della “civiltà contadina” povera e eternamente immobile di cui aveva parlato pochi anni prima Carlo Levi e proiettare Taranto , la Puglia e il Sud tutto in un futuro radioso.

Per legittimare questo punto di vista, che peraltro contrastava con la storia di una città che, in virtù della presenza dell’arsenale e del porto militare, aveva già avuto nei decenni precedenti un primo importante sviluppo industriale, l’Italsider negli anni Sessanta arrivò, come ci ricorda Irene Guida in un corposo dossier sul sito www.linkiesta.it, a «commissionare ad artisti e scrittori ritratti e descrizioni del paesaggio tarantino per spiegare i vantaggi che l’acciaio avrebbe portato fra gli ulivi», ma anche ritratti di «contadini dalle mani gigantesche e sporche», che «cedevano all’avanzare dell’uomo nuovo, dell’operaio tutto nervi, occhiali, tuta blu e saldatore stretto come un fucile». Un’operazione evidentemente ideologica, la cui vittima, in prima battuta, fu il territorio: distese sterminate di uliveti centenari, orti, muretti a secco, antiche masserie furono completamente cancellati per fare spazio alla grande fabbrica, che alla fine arrivò ad avere l’estensione di un quadrato di nove chilometri di lato, quasi due volte e mezzo la città.

E per molti anni, l’esperimento parve funzionare. Taranto diventò una grande città industriale, forse la più prospera ed evoluta del Sud. Prevalentemente orientata a sinistra, orgogliosa della propria “modernità” produttiva, dotata di un sostanzioso sistema di welfare locale, in parte finanziato direttamente dall’Italsider e cogestito con i sindacati, contrapposta, nella geografia sociopolitica regionale, a Bari capoluogo “levantino” dei commerci e della politica e al Salento dall’immagine arretrata e arcaica. Una città in fortissima espansione demografica, che attraeva mano d’opera mentre da tutto il Mezzogiorno, in quegli anni, si emigrava a ritmi forsennati verso il Nord.

Non tutte le promesse però venivano mantenute. Nella retorica del tempo, la grande fabbrica avrebbe dovuto spandere benefici sul territorio, attivando, attraverso l’“indotto”, uno sviluppo a macchia d’olio che però tardava ad arrivare (e, col senno di poi, possiamo dire che mai arrivò). Anzi, mentre cresceva la fabbrica nuova, decadevano i cantieri navali e l’arsenale. E poi i rapporti dello stabilimento e della sua dirigenza – in gran parte proveniente dal Nord – con la città a volte sembravano seguire una logica quasi coloniale, a partire da una questione cruciale, quella dell’enorme inquinamento prodotto dagli immensi impianti, il cui impatto sul territorio e sui cittadini era amplificato dalla mancata adozione delle più elementari norme di sicurezza e di cautela (per cui ad esempio interi quartieri popolati da decine di migliaia di persone sono ubicati a brevissima distanza dalla fabbrica).

In pochi, negli anni d’oro, sono intervenuti su questi temi uscendo dal coro. Fece eccezione, come suo solito, Antonio Cederna, che nel 1972 scrisse due lunghi articoli sul Corriere della Sera in cui descrisse con toni fortemente indignati Taranto come città «in balia dell’Italsider», che «tende a imporre il proprio interesse aziendale, considerando la città e i suoi duecentomila abitanti come un semplice serbatoio di mano d’opera, trascurando ogni altra esigenza dello sviluppo civile e del progresso sociale». Osserva come «un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento», e poi denuncia i gravissimi danni ambientali che vengono prodotti nell’assoluta illegalità.

A metà degli anni ’90, lo stabilimento siderurgico viene venduto alla famiglia Riva. In un quadro complessivo di perdita della capacità egemonica della “grande narrazione” dell’industrialismo, le relazioni fra proprietà e lavoratori vengono completamente stravolte, spesso con strategie sottili che mettono le nuove generazioni che progressivamente vengono inserite in azienda, affamate di lavoro, quindi più “flessibili” e desindacalizzate, contro i “vecchi” operai sopravvissuti alla trasformazione della fabbrica, riottosi al “nuovo corso”. Raffinate strategie di persuasione, unite a pratiche umilianti (come quella di confinare i lavoratori non collaborativi in una palazzina isolata) riescono ad ottenere i risultati sperati: i sindacati vengono indeboliti e resi di fatto ininfluenti, mentre l’azienda, sfruttando anche la congiuntura internazionale favorevole all’acciaio, incamera utili considerevoli. Intanto, la fabbrica continua ad avvelenare l’ambiente e gli uomini, creando una situazione che arriva ad un punto di non ritorno. E l’immagine dell’Ilva si trasforma, per citare il sociologo Franco Cassano, «da polo della modernità trionfante in quella di un mostro che avvelena la città».

Oggi, la Taranto che Pier Paolo Pasolini descrisse come «una perla preziosa racchiusa fra le due valve del Mar Grande e Mar Piccolo» è diventata un concentrato di veleni senza paragoni, con un numero insostenibile di malattie ambientali, a partire dai tumori. E poi, danni incalcolabili sono stati arrecati all’economia del territorio: solo per fare due esempi, l’inquinamento ha praticamente distrutto l’itticoltura e danneggiato gravemente l’agricoltura, l’allevamento di ovini e la produzione di formaggi, anche in territori distanti molti chilometri dallo stabilimento; inoltre la città, nonostante la meravigliosa posizione geografica, la presenza di uno dei più straordinari musei archeologici del Mediterraneo e di un notevole patrimonio storico monumentale, ancorché degradato, nel borgo antico, è tagliata fuori dall’importante boom del turismo pugliese, che ha alcuni importanti epicentri proprio in territori limitrofi (come il Salento leccese e la Valle d’Itria) anche e soprattutto per le ricadute d’immagine legate alla vicenda dell’Ilva.

Una grande e dolorosa tragedia, descritta in questi ultimi anni da tanti articoli e servizi giornalistici, ma anche da alcuni artisti coraggiosi, come Alessandro Langiu, che nel suo spettacolo teatrale Venticinque mila granelli di sabbia racconta la vicenda struggente di due bambini che vivono in un quartiere popolare della città, ricoperto di velenosa polvere rossa. Questa situazione così catastrofica non poteva che scatenare una forte protesta sociale, che ha coinvolto strati sempre più ampi della popolazione, fino all’intervento della magistratura dei mesi scorsi, che ripropone in maniera drammatica il terribile conflitto fra diritto alla salute e diritto al lavoro. Che, in un Paese civile, semplicemente non dovrebbe esistere.

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