L’Italia e la Convenzione Unesco sul “patrimonio immateriale”

di Vincenzo Santoro

da Anci Rivista, dicembre 2007

 

storico52216272909155711_bigAlla fine di una lunga attesa, finalmente anche l’Italia – con la legge n. 167 del 27 settembre 2007 – ha ratificato la Convenzione dell’Unesco che tutela il “patrimonio immateriale”, già adottata dall’organismo dell’Onu nella seduta di Parigi del 17 ottobre 2003.

Per “patrimonio culturale immateriale” si intendono le espressioni della “tradizione popolare”, come le feste, i rituali religiosi, le musiche popolari, le memorie orali, le metodologie di preparazione dei prodotti “tipici”, ma anche il complesso di “saperi” di un singolo individuo riconosciuto dalla sua comunità come “testimone” di una particolare tradizione locale. La Convenzione prevede che vengano attivate a livello nazionale delle politiche di tutela e valorizzazione di questi patrimoni; inoltre viene prevista la compilazione di una lista internazionale di “eccellenze”, di testimonianze di particolare importanza, da dichiarare “patrimonio dell’Umanità”. Fino ad ora sono stati proclamate 90 esperienze, di cui due per l’Italia: il “canto a tenore sardo” e il “teatro dei pupi” siciliano.

La ratifica della Convenzione rappresenta un avvenimento molto importante per il nostro Paese, che è ricchissimo di questi patrimoni, la cui salvaguardia e valorizzazione in molti casi può attivare anche importanti filiere di turismo culturale.

In seguito alla ratifica, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha organizzato il 29-30 settembre un interessante seminario alla Biblioteca Nazionale di Roma, in cui sono stati presentati i contenuti della Convenzione e affermate molte buone intenzioni, che però finora sono rimaste solo sulla carta. Dell’iniziativa hanno fatto parte anche una spettacolare serie di esibizioni e di “rappresentazioni” (i canti sardi dalle mirabili polifonie, le travolgenti tarantelle pugliesi, la ritualità esplosiva dei “gigli” di Nola, la raffinata poesia popolare dell’ottava rima ecc), che hanno esemplificato la ricchezza del patrimonio immateriale italiano.

Ma quali potrebbero essere delle proposte di intervento in questo importante settore? Dal dibattito in corso, e dai documenti elaborati dal Comitato scientifico ministeriale, si possono trarre alcuni spunti programmatici.

Sul piano istituzionale, una volta ratificata la Convenzione, occorre definire rapidamente le procedure per la selezione dei patrimoni italiani da dichiarare “patrimonio dell’Umanità”, che dovranno prevedere il coinvolgimento degli addetti ai lavori, delle comunità locali e naturalmente dei Comuni, che sono il terminale fondamentale di qualunque intervento territoriale.

Urgente è poi chiarire il nodo delle risorse. Per procedere a interventi che siano concreti e non solo di immagine, lo Stato deve mettere a disposizione fondi adeguati. Sarebbe ad esempio augurabile l’istituzione di un Fondo per il Patrimonio Immateriale, da utilizzare in accordo con le rappresentanze delle Regioni e degli Enti Locali.

Si dovrebbe poi procedere alla definizione, insieme a tutti i livelli istituzionali interessati, di Linee guida nazionali, che contengano un piano di interventi di medio periodo, da realizzare a livello nazionale e territoriale. Il percorso di costruzione di queste Linee dovrebbe prevedere innanzitutto una seria riflessione sull’esistente, sulle politiche concrete che in molti casi sono già attuate dalle istituzioni territoriali. Mi riferisco sia alle reti museali (musei delle tradizioni popolari, musei del territorio, ecomusei e strutture analoghe), ai diversi “archivi sonori e multimediali” – pubblici e privati – e alle altre iniziative che costituiscono il perno del sistema di “conservazione” dei patrimoni immateriali; ma anche alle esperienze più avanzate di “valorizzazione” (festival rassegne, carnevali, feste ecc). Inoltre occorrerebbe analizzare con attenzione la legislazione regionale, che in molti casi prevede delle strategie di intervento significative. La legislazione più innovativa andrebbe valorizzata e diffusa anche nelle regioni che ne sono sprovviste.

Anche nel dibattito di questi mesi è ritornata la questione su cui di solito ci sono le più aspre divisioni: le priorità tra le politiche di tutela e quelle di valorizzazione. Su questo annoso problema mi pare che occorra un atteggiamento per quanto possibile pragmatico. Non c’è dubbio che per il nostro Paese l’intervento più urgente riguardi la tutela e la salvaguardia di patrimoni che sono per loro natura volatili, soggetti a deperimento e a scomparsa. Si dice con ragione che ogni volta che un anziano “depositario” dei saperi tradizionali muore, è come se bruciasse una biblioteca. Queste memorie vanno per quanto possibile salvate, utilizzando per questo le metodologie scientifiche più aggiornate e le tecnologie più avanzate. Occorre anche tener presente però che questi temi sono entrati nel dibattito pubblico diffuso e hanno interessato la politica soprattutto per il successo di alcune esperienze di valorizzazione “spinta”, in cui patrimoni locali sono diventati di fatto attrattiva turistica, generando significative ricadute sul territorio. Queste esperienze, che spesso rispondono anche ad esigenze locali di riappropriazione della propria memoria culturale, si stanno sempre più diffondendo nel nostro Paese, da sud a nord, anche in assenza di politiche nazionali. Sarebbe auspicabile quindi che le comunità e gli operatori locali, insieme agli studiosi, unissero le forze per elaborare politiche di valorizzazione coerenti ed efficaci, rispettose e non invasive, che coniughino lo sviluppo locale con il miglioramento della coesione sociale e con una maggiore coscienza della storia e delle peculiarità locali. Evitando magari approcci facili e disinvolti, purtroppo molto presenti in questo settore, che spesso mettono a repentaglio gli stessi patrimoni che si vorrebbero salvaguardare.

 

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