La ricerca del Salento perduto

brizio_montinaro_biografia_9Intervista a Brizio Montinaro

di Vincenzo Santoro

da Melissi n. 12/13, luglio 2006



Brizio Montinaro, salentino di Calimera, ma ormai da tanti anni residente a Roma, lavora come attore per il teatro, il cinema e la televisione. Nel corso degli anni ha anche svolto delle importanti ricerche sulla cultura popolare, salentina e non, da cui sono state tratte una serie di raffinate pubblicazioni.

In particolare, intorno alla metà degli anni settanta, la sua attenzione si è concentrata sui canti di tradizione orale. Quel lavoro di ricerca, sfociato nei due mitici dischi della collana Albatros: Documenti originali del folklore musicale europeo Musiche e canti popolari del Salento (riediti nel 2002 in doppio cd dalle edizioni Aramiré), oltre ad avere costituito per due decenni l’unica antologia disponibile sulla tradizione musicale salentina, è stato anche il punto di partenza per tutto il “folk revival” che si è sviluppato successivamente. Infatti, i canti raccolti da Montinaro
hanno costituito la “fonte” da cui hanno attinto tutti i gruppi di riproposta, dal Canzoniere Grecanico Salentino prima maniera al “movimento” di oggi. Alcuni dei brani cult del repertorio odierno, come Pizzicarella, la Pizzica degli Ucci, la Pizzica di Aradeo, gli Stornelli, Ferma Zitella, Mara l’acqua e tanti altri, sono conosciuti in primo luogo grazie a quelle bellissime registrazioni realizzate ormai trent’anni fa.

Recentemente, sempre con le edizioni Aramirè, Montinaro ha pubblicato un’ulteriore preziosa raccolta di registrazioni provenienti da quella stagione di ricerca, Musiche e canti popolari del Salento vol. 3, dove spiccano, oltre ad alcuni canti, bellissimi e in gran parte sconosciuti (di Rocco Gaetani, Niceta Petrachi detta La Simpatichina, Cosimino Surdo, Elvira Valguarnera e altri), due impressionanti registrazioni ambientali della “rappresentazione rituale” che i tarantati svolgevano il 29 giugno nella cappella di San Paolo a Galatina, funzionale a chiedere la grazia al Santo, e una che rappresenta il “paesaggio sonoro” della festa di San Rocco a Torrepaduli. Infine completano il cd alcuni canti in grico o bilingui, che costituiscono delle interessanti testimonianze sulla trasformazione dell’uso di questa lingua antica che si stava realizzando in quegli anni. Una raccolta di grande importanza per la conoscenza della nostra cultura di tradizione orale, arricchita da una ampia e approfondita introduzione, ricca di spunti critici sullo stato presente del “movimento della pizzica”, e da un puntuale apparato di commento ai brani.





Abbiamo incontrato Brízío Montinaro nella sua casa romana, a pochi passi da Campo dei fiori, per una conversazione ad ampio raggio sul suo rapporto col Salento.



Come è nato il tuo interesse per la cultura popolare salentina?

Io sono nato a Calimera, in via Martano (oggi via Europa). La mia era una famiglia normalissima, come tante. Mia madre tabacchina, mio padre sarto. Anche bravo mi dicono! Poi, col tempo, ha avuto un impiego all’Aeroporto di Galatina. Quindi, per come andavano le cose nell’immediato dopoguerra, potevamo considerarci fortunati! Vicino a noi abitava una famiglia originaria di Martano. Il primo impatto con qualcosa che mi ha segnato e mi ha spinto a riflettere è avvenuto proprio in occasione della morte di uno dei componenti di questa famiglia.

I parenti del defunto avevano fatto arrivare delle prefiche da Martano per piangere il morto. Fu in quella circostanza che mi si aprirono gli occhi e scoprii che c’era una realtà diversa dalla mia, una realtà che da una parte mi sconvolgeva – ero letteralmente terrorizzato da quelle donne nero vestite con i capelli sciolti sulle spalle che urlavano – dall’altra mi incuriosiva moltissimo. Ero ancora un ragazzo, potevo avere dieci-undici anni.

È stato proprio questo episodio a farmi porre le prime domande. Chi sono queste donne? Che fanno? Perché lo fanno? Perché quando muoiono alcuni accade che esse ci siano e quando muoiono altri questo non accade? Ed è così che è nato il mio interesse per la cultura e per le tradizioni popolari, interesse che è iniziato con l’osservazione dei riti funebri ma poi man mano si è allargato alla musica, alla poesia popolare e a tutte quelle tradizioni nelle quali ero profondamente immerso. Quando, con le prime letture importanti, ho cominciato a dare risposte alle mie domande, ho capito che forse dovevo considerarmi proprio fortunato ad essere nato a Calimera, a parlare due lingue – il grico era la lingua di mia madre e di mio padre, e io lo avevo imparato da loro – ad essere diverso dagli altri e ad avere tradizioni tanto ricche. E così, ancora ginnasiale, ho cominciato a fare ricerche a tutto campo. Era una cosa che mi appassionava.

Risale proprio a quel tempo la composizione di una mia poesia dal titolo In terra straniera non sei. Una poesia piccola e ingenua con la quale davo il benvenuto alla stele in marmo pario che Atene aveva donato a Calimera per ricordare la nostra comune origine. Portata via da un museo della Grecia e trasferita qui da noi non volevo che si sentisse sola perché in realtà… non era in terra straniera. Il sindaco del mio paese apprezzò molto il concetto fino a chiedermi di trarre un verso da incidere sull’architrave dell’edicola che ancora oggi la accoglie.

Un altro momento importante per la mia formazione è stato l’incontro con una persona di Calimera veramente straordinaria. Si chiamava Maria Rescio. Era un’anziana donna vestita di nero, come del resto tutte le donne anziane delle nostre parti. Dolcissima. Parlava poco. Sembrava una Sibilla.

Dico il nome perché rimanga nella storia della comunità. Era un archivio vivente della cultura grica. Sapeva a memoria tutta la poesia popolare e d’autore esistente. È lei che mi ha fatto apprezzare e amare la poesia della mia terra. Conosceva a memoria anche le varianti che la trasmissione orale aveva col tempo generato. Per anni ne ho registrato i testi, poi distrutti, ironia della sorte, proprio da colui che mi aveva insegnato a leggere e scrivere la lingua italiana: Ernesto Aprile, il mio maestro delle elementari a cui avevo prestato i nastri con le registrazioni. A proposito, apro una parentesi. So che nel corso del tempo si è impossessato della frase Zeni ‘su en ise ettù ‘s ti Kalimera (In terra straniera non sei) ma è un vero e proprio furto di cui dovrebbe vergognarsi. Chiusa la parentesi.

Torniamo a Maria Rescio.

Quando Maria Rescio morì i calimeresi furono molto colpiti. Ebbero la sensazione netta che con lei se ne andava parte di Calimera. Io ricordo che, tra le lacrime, scrissi per lei una poesia e mi risulta che anche Giannino Aprile, sindaco-poeta, ne abbia scritta una. La sua qualità di grande dicitrice ha lasciato segni in me e in tutti quegli studiosi del grico che dalla Grecia venivano nelle nostre terre: non ultimo il grande glottologo Anastasios Karanastasis.

Unendo tutte queste esperienze, la conoscenza naturale della lingua grica, i miei studi di filologia e di antropologia che intanto andavo compiendo presso l’Università di Lecce con grandi maestri come Maria Corti, Mario D’Elia, Francesco Sabatini, Bronzini ecc. ho potuto acquisire gli strumenti per penetrare la realtà culturale del Salento e tradurre finalmente i testi grichi così come andavano tradotti. In breve, ho acquisito un metodo.

Ad un certo punto, nel ’64 esattamente, andai via da Calimera. Venni a Roma per frequentare come attore il Centro Sperimentale di Cinematografia. L’altra mia passione. Ma ero ancora iscritto all’Università di Lecce e quindi continuai a ritornare con frequenza nel Salento. E ancora ci torno.



Quale è stata la tua prima pubblicazione?

La primo libro che ho pubblicato è stato Salento povero, edito da Angelo Longo. È una raccolta di saggi su vari argomenti. Uno dei primi libri scritti in quegli anni da un salentino che, in qualche modo, si occupava scientificamente del Salento dal punto di vista storico-antropologico. Poi ho cominciato a studiare la poesia popolare.

Quando nei primi anni settanta c’è stata in Italia l’esplosione della musica popolare io avevo già fatto varie ricerche, e non solo sulla musica popolare. Ero attratto dalla religiosità del popolo. Mi ero interessato moltissimo, ad esempio, al santuario di San Rocco di Torrepaduli. Lo frequentavo assiduamente dalla fine degli anni quaranta. Ero piccolissimo. Ci sono andato tutti gli anni almeno fino al 1981. Nessuno meglio di me poteva sapere quindi quello che ogni anno vi accadeva. E bada che io andavo lì, tra i fedeli e devoti, con l’occhio dell’osservatore. Il breve saggio che ho pubblicato in Salento povero è il racconto sintetico della struttura del rito legato al culto di San Rocco. Fui uno dei primi a notare che tra i frequentatori dei santuari stava cambiando qualcosa. Non più solo contadini con il loro stigma ma anche professionisti e impiegati che, delusi dalla fede che avevano nutrito per la scienza, tornavano a rivolgersi ai santi per stare bene e guarire da un male che allora più di ora, terrorizzava gli uomini: il cancro.

Un altro saggio pubblicato in quel libro: Le tarantate vanno dal loro psicanalista: S. Paolo fece aprire gli occhi a molti. Fece scalpore. L’antropologa e carissima amica Annabella Rossi ne era ammirata.

In tempi più recenti ho pubblicato con Sellerio San Paolo dei Serpenti. Non è uno studio di argomento salentino anche se ovviamente il Salento, Galatina e il tarantismo hanno un loro posto. È un saggio che per la prima volta, in maniera organica, ordina le tradizioni riguardanti i serpenti e la figura potente di san Paolo e ne dà una lettura di carattere storico-antropologico. Il viaggio affascinante, seguendo il dipanarsi delle tradizioni, parte da Malta e, man mano, risalendo su per la Sicilia, allunga l’orizzonte e il raggio d’interesse a tutta l’Italia e anche a parte dell’Europa.

In realtà, io mi occupo di tradizioni popolari in genere e di antropologia culturale. Non sono un cultore del folklore salentino e basta. Se poi la mia ricerca ha prediletto il Salento è solo perché è la terra che mi ha visto nascere e che meglio conosco.

Per concludere, ho pubblicato per Bompiani nella ‘Nuova corona’ – la prestigiosa collana diretta da Maria Corti – una raccolta di testi della tradizione popolare greco-salentina in Canti di pianto e d’amore dall’antico Salento. Un libro fortunato. Ora alla fine della seconda edizione nei Tascabili Bompiani dopo le due avute con la prima uscita. Venduto anche all’estero. Ha suscitato l’interesse di Luciano Berio e di un altro grande musicista inglese Brian Elias. Questi artisti hanno composto due opere servendosi dei testi grichi del mio libro. Posso dire con orgoglio d’essere stato il primo a portare all’attenzione di un pubblico internazionale la lingua grica del Salento.

Ma forse mi sto dilungando troppo? Non ricordo più qual era la domanda.



No, va bene così. Come nascono i dischi Albatros?

I due dischi Musiche e canti popolari del Salento, pubblicati nella collana Albatros nel 1977-78, nascono dal mio interesse per uno specifico segmento della cultura salentina: la canzone popolare e dalla forte coscienza del vuoto esistente a quel tempo sull’argomento. Ma il canto popolare mi interessava soprattutto come espressione della cultura tradizionale e come strumento rivelatore di una mentalità. Non mi interessava tanto la musica quanto i testi. Io ho sempre dato un grande valore ai testi. Sui testi e su quello che mi rivelavano potevo dire qualcosa di nuovo, giungere ad una sintesi di qualche interesse, sulla musica invece no. Io non ho studiato musica e non mi è mai piaciuto parlare a vanvera. Esercitazione in questi tempi molto diffusa, da quel che vedo.

Nel 1977, dopo l’uscita di Salento povero, mi hanno affidato una rubrica sulla musica popolare in una importante trasmissione di Radio2. Si chiamava Qui Radio2. Avevo a disposizione quindici minuti al giorno per tre volte a settimana e avevo deciso di parlare della canzone popolare trattando un tema diverso per ogni settimana, tipo il fazzoletto, il sole, la serenata ecc. La trasmissione ebbe molto successo perché io agli ascoltatori illustravo il significato dei testi, il contesto in cui il canto poteva esser nato, la funzione della musica popolare, il significato di certe tradizioni che risultavano dai canti e via dicendo. E poi facevo ovviamente ascoltare delle bellissime canzoni attinenti al tema trattato. Sì, ebbe un grande successo. Moltissima gente mi chiamava incuriosita da quanto si diceva in trasmissione. Ecco, proprio in quel periodo ebbi modo di incontrare una signora che si occupava qui a Roma delle Edizioni Sciascia, l’editore della collana Albatros. Albatros era la più importante collana discografica a livello europeo per la musica popolare italiana e internazionale. In essa si pubblicavano esclusivamente “documenti originali del folklore musicale europeo”. Siccome non avevano nulla in catalogo sul Salento proposi di realizzare io un disco. Questa signora mi mise in contatto con il maestro Armando Sciascia, persona straordinaria e di grande sensibilità. Andai a Milano, lo incontrai e gli presentai il progetto per un primo disco. Lui, dopo aver consultato Roberto Leydi che sovrintendeva alla collana, decise di accettare. Naturalmente mi disse: “guarda che non ci sono soldi, ti pagherò un rimborso spese e basta”, io accettai lo stesso perché non mi interessava tanto l’aspetto economico quanto che esistesse un disco con i canti popolari del Salento e che i materiali che avevo raccolto non andassero perduti.

Avevo registrato tanta di quella roba nel corso degli anni che dopo il primo disco Sciascia mi chiese di farne un secondo, che realizzai, e dopo ancora di farne un terzo. Io lo preparai, con testi, trascrizioni, presentazioni e tutto… quando però mi disse che dovevo andare a Milano a spese mie gli risposi che mi pareva eccessivo e rinunciai all’impresa. Il materiale di quel terzo disco, in gran parte, è stato pubblicato pochi mesi fa dalle Edizioni Aramirè in un cd dal titolo Musica e canti popolari del Salento, vol. 3. Un vero scrigno di documenti irripetibili, salvati dall’oblio spero per sempre. Sta suscitando grande interesse perché contiene dei brani significativi non solo dal punto di vista musicale ma anche dal punto di vista linguistico e antropologico.



Cosa pensa di tutto il movimento che c’è oggi nel Salento intorno alla musica popolare e soprattutto alla pizzica?

Nel Salento di oggi succedono cose incredibili e c’è grande confusione. Mi dicono che ci sono persone a capo di gruppi di musica tradizionale che hanno depositato alla SIAE le canzoni popolari come fossero proprie per riscuotere i diritti d’autore. Capisco fare degli arrangiamenti e prendere i diritti, ma non di depositare canzoni e dire di essere gli autori. Sono cose che gridano vendetta al cospetto di Dio! Sono l’opposto della serietà che pretendono di avere. Il fatto è che i giovani oggi hanno poca voglia di studiare, di fare ricerca sul campo. Mi dicono che esistono un centinaio di gruppi che suonano pizziche! Senza la ricerca e lo studio non so che sviluppo possano avere, quale possa essere il loro repertorio al di là dei soliti pezzi che ripetono tutti fino alla nausea. Quale il loro futuro.

Io personalmente ritengo che ci sia in atto una iperfetazione di gruppi e che questo sia un fenomeno tipicamente salentino. Non conosco altre aree d’Italia dove sia presente un fenomeno del genere. Tutto ciò, è chiaro, si deve soltanto al ritmo della pizzica. Tutti fanno pizziche e solo pizziche. A me dispiace che in questo clima di euforia accesa non sia passato un solo concetto scientificamente corretto a proposito delle tarantate. Ognuno racconta quello che gli piacerebbe fosse, vittima di suggestioni proprie e altrui. La transe, Dioniso, la Grecia, cose che forse c’entrano, ma più probabilmente no.



E tu stai lavorando a qualche nuovo libro?

Sì. Ora sto scrivendo un libro il cui tema principale è la lingua grica. Un libro di cose inedite, ricercate in questi anni. Conterrà una bella antologia di testi. Più non posso dire.



Noi finora abbiamo parlato soprattutto delle questioni attinenti alla musica popolare, così importanti per il Salento di oggi. Da uno studioso di lunga data della cultura grica, vorrei avere anche un parere sulle iniziative che in questi anni sono state prese per la rivitalizzazione di questa lingua antica. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a dei tentativi di salvare e di valorizzare una cultura che dalle istituzioni per decenni è stata ignorata, quando non esplicitamente combattuta. Che ne pensi?

Esistono alcuni paesi, sette, in cui si parla ancora grico. E anche poco, se devo dire la verità. Il grico mi appare come un tessuto mangiato sempre più dalle tarme. Si è ridotto ad una ragnatela. Eppure oggi c’è chi si scopre grico e fa parte dell’Unione dei paesi della Grecìa salentina. Folgorazioni. Come sulla via di Damasco. Questo succede solo per ragioni economiche evidentemente, serve per avere finanziamenti dallo Stato e dall’Europa. Mi fa piacere che le minoranze vengano tutelate, anche la nostra “minoranza linguistica”, è ovvio. Ma cercare di costruirsi un’identità etnica oggi solo perché ci sono i soldi ritengo sia una cosa poco seria. L’identità o ce l’hai o non ce l’hai. Non te la puoi inventare. Io, come altri, l’identità grica l’ho sempre avuta. Da quando sono nato. Fin da quella notte in cui ascoltai a Calimera le prefiche piangere il morto ho cercato di indagare questa identità, ma poi sono andato oltre. Non ho mai sostenuto di essere greco, come hanno fatto alcuni appassionati privi di ogni senso logico e storico. Sono italiano, europeo, cittadino del mondo. L’identità non si ottiene per questioni economiche. Identità è sentirsi culturalmente partecipe di una realtà. Quella realtà dalla quale sono fuggiti in molti, dai primi anni cinquanta in poi. Non la si può acquisire oggi a posteriori. Non la si può ricreare, perché ormai appartiene al passato. Questo attuale è un falso movimento. Alla base c’è solo l’interesse economico. Queste cose non mi piacciono.

Perché tutta questa gente non si è occupata del grico quando non c’era niente da guadagnare?



E si può recuperare l’uso di questa lingua insegnandola a scuola?

No. Lo nego. La lingua grica non sarà mai più parlata. Una lingua vive finché è necessaria, quando non è più necessaria ad esprimere concetti moderni muore. Tantissime lingue muoiono ogni giorno, e morirà anche il grico. C’è un interessante studio dell’Unesco in proposito. Noi non sappiamo fare in grico un discorso uguale a quello che facciamo in italiano. Noi col grico possiamo esprimere solo cose quotidiane: “come stai?”, “dove vai?”, chiedere che cosa ha preparato da mangiare la mamma, parlare d’amore e fare un po’ di conti – perché i numeri rimangono sempre identici a quelli dei greci classici, anche nella pronuncia – ma se io devo fare un discorso su quello che penso della situazione politica in Italia, se devo parlare di letteratura, di cinema o altro, io in grico non lo posso fare, se non semplificando al massimo il senso di quello che voglio dire. Quindi a questo punto uso la lingua italiana. Se io potessi esprimere in grico tutto quello che mi passa per la testa, il grico non morirebbe. Siccome questo non è possibile, il grico morirà, perché non serve più.

Tutto quello che succede intorno al grico oggi mi sembra un po’ quello che accade tra i parenti intorno al letto di un morto. Ma di questo non voglio più parlare. C’è troppa mistificazione.

Mi chiedevi della scuola. Se vogliamo essere sinceri, il grico che insegnano a scuola è inutile: primo perché insegnano solo due-tre poesie e poco altro, poi perché i ragazzi, una volta usciti dalla scuola, ritornano a parlare l’italiano impoverito che imparano stando ore e ore davanti al televisore.

Non possiamo ripristinare la vita passata. Saremmo antistorici. Però non dobbiamo scordare le nostre radici, questo sì. Dobbiamo ricordare da dove veniamo e chi siamo. Imesta grichi. Siamo grichi. Dobbiamo studiare quanto più è possibile il nostro passato, la nostra lingua, la nostra cultura, perché è attraverso la ricostruzione del passato che noi possiamo capire chi siamo e progettare meglio il nostro futuro. Tutto il resto non ha senso. È solo polvere per gli occhi. Credimi.



Ritorniamo a parlare di Torrepaduli. Tu sei un testimone importante e non voglio lasciarmi sfuggire questa occasione per sapere cosa veramente accadeva. Per cominciare: come è nato il tuo interesse per la festa di San Rocco?

Con questa tua domanda mi scaraventi indietro con la memoria a più di cinquant’anni fa. A quando ero bambino. Infatti, per vicende personali come ti ho detto, frequento il santuario di san Rocco dal 1948. Da allora ci sono andato tutti gli anni, tranne uno. Sembra impossibile ma è così. E quasi sempre sono andato proprio nei giorni della festa.



Questo me lo hai già detto. Ma come mai ci è andato per tutto questo tempo?

Il mistero è presto svelato. A quel tempo, come un male sfuggito dal vaso di Pandora, circolava silenziosa tra la gente una malattia terribile che mieteva vittime a centinaia: il tifo. Io mi ammalai proprio di questa malattia e fui prossimo alla morte. Mi raccontano che un giorno del mio lungo periodo di degenza il medico, dopo aver fatto tutto quello che si poteva e anche di più, amareggiato disse a mia madre: «Signora, perda pure le speranze perché ormai non c’è più nulla da fare, è questione di ore e il bambino muore. Non ha quasi più polso ormai». Avevo quasi cinque anni.

La notizia della mia morte imminente si diffuse subito nel vicinato e da qui corse per il resto del paese. La morte di una persona allora, aveva un senso profondo, religioso, che scuoteva l’intera comunità. Oggi è solo una notizia che si dimentica dopo cinque minuti.

Era la fine di maggio, forse i primi di giugno. Non ricordo. C’era un sole fortissimo. Questo sì lo ricordo con certezza.

Le case dei nostri paesi allora erano quasi tutte uguali. Case povere. Davano tutte sulla strada ed erano composte da una stanza d’ingresso, una camera da letto, la cucina e il bagno, quando c’era. Altrimenti, separato dal resto dell’abitazione si usava uno stanzino, in fondo al giardino, con un cesso alla turca.

Nella prima stanza troneggiava di solito il letto dei genitori. Tutti i figli dormivano nella seconda stanza. Io però ero nella prima stanza quando successe il fatto.

La porta di casa aveva gli scuri chiusi ed era accostata a forbice. Una lama di luce penetrava fendendo il buio. Una di quelle lame di sole salentino, terribile e ardentissimo. Ero nel letto, pulito e con le lenzuola bianchissime. Solo, in quella grande stanza buia con la volta a stella che mi stava sempre davanti agli occhi. Mia madre, costretta da mia nonna, era andata di là in cucina a tentare di mangiare qualcosa. Passava le giornate a digiuno, povera donna, accanto al letto. Non si accendeva neanche il focolare.

Quanto segue è quello che “credo” di aver visto. Quello che ricordo.

Era da poco passato mezzogiorno. Avevo sentito suonare le campane.

Dopo giorni e giorni che non parlavo riuscii a chiamare mia madre, facendo una fatica immensa per farmi sentire. Venne correndo, spaventata, perché non sapeva cosa stava accadendo. “Che è successo? Dimmi, figlio mio!” mi disse. Ed io feci questo racconto che ripeto in italiano e non in dialetto come allora: «È venuto San Rocco, mamma. È entrato dal buco della porta. Si è avvicinato al letto, mi ha messo la mano destra sulla testa e mi ha detto: “Da oggi in avanti tu starai bene e dovrai venire ogni anno nella chiesa piccina di Torre”». Mia madre ascoltando questa storia rimane stupefatta, poi chiama urlando mia nonna che si precipita dalla cucina convinta che io ormai stia morendo. Ripeto anche a mia nonna lo stesso racconto. Mi chiedono particolari. Io allora descrivo l’abbigliamento del santo. Dico che aveva una mantellina con una specie di “pagnotta” sul petto: era la conchiglia dei pellegrini. E aveva con sé un cane che stava lì, ai piedi del letto, con un osso in bocca. Puoi immaginare cosa ha potuto scatenare in mia madre e in mia nonna questo racconto. Attratti dalle urla arrivano i vicini di casa. Anch’essi ascoltano il racconto, che io ripetevo sempre con le stesse precise parole, e poi corrono via urlando per le strade sotto un sole abbacinante: «È un miracolo, un miracolo! Brizio ha visto san Rocco!».

In effetti, pochi giorni dopo l’apparizione del Santo ero già in piedi nonostante fossi stato a letto malato per un paio di mesi.

Da quel momento parenti, amici e vicini di casa mi sottoposero a una serie di test. Ricordo che mi facevano scorrere sotto gli occhi una grande quantità di immaginette sacre, alcune somiglianti all’immagine di san Rocco altre no, sperando che io potessi confondermi ed indicare un altro santo invece di quello che avevo visto ma io, in questo passaggio di figurine che mi facevano vedere, individuavo sempre l’immagine di San Rocco. Anche il prete è venuto, mi ha fatto rifare il racconto e poi mi ha sottoposto a trabocchetti vari per farmi cadere in contraddizione, ma niente: io ripetevo il mio racconto sempre con le stesse parole, e riconoscevo tra mille sempre la stessa immagine.

Stando così le cose, arrivata la prima festa, mia madre sentì l’obbligo di portarmi al santuario di San Rocco per ringraziarlo di quanto aveva fatto per me. Per noi.

Questo è quanto. I primi anni ci andai condotto. Dopo, perché “non ci credo ma comunque…” e infine, per i miei interessi di natura storico-antropologica.



Come si arrivava al Santuario?

Allora le strade non erano asfaltate. La guerra era finita da poco. I paesi erano poverissimi. I mezzi di trasporto pubblici non esistevano quasi e comunque non per Torrepaduli. Si arrivava con una grande fatica. A noi il primo anno ci portò uno zio di mia madre che possedeva un’asina con un carretto.

San Rocco a quei tempi era un santo taumaturgo molto amato. Per la sua festa arrivava gente da tutta la Puglia. Anche dalla Basilicata.

In genere noi partivamo il 14 di agosto, al tramonto per evitare il caldo, e arrivavamo a Torrepaduli al sorgere dell’alba del giorno dopo. Mi ricordo in quegli anni, ma anche in quelli appena successivi, la grande quantità di pellegrini che vedevamo passare a piedi da Calimera diretti a Torre prima ancora che noi si partisse per la stessa meta con il carretto di mio zio. Molti erano anche i traini che svolgevano pubblico servizio. Quindi, per rispondere alla tua domanda, si andava soprattutto a piedi o con i carretti. In seguito arrivarono le corriere. E ancora dopo, quando un po’ di benessere era ormai giunto anche da noi, con le automobili pubbliche e private. Ma è un altro racconto.

Una volta partiti con il traino, si stava ore ed ore a viaggiare. Ricordo ancora i canti e i racconti che si facevano per far passare il tempo. Quanto più ci avvicinavamo a Torre tanto più si vedeva gente che camminava ai margini delle strade carica dei propri fagotti. File lunghe e nere. C’era sempre qualcuno che veniva investito, chi si sentiva male, chi si sedeva sui muretti a secco ai margini della via per riposare stremato dalla stanchezza. Tutto questo avveniva di notte, ricordalo. Ad un certo punto, i carretti che provenivano da direzioni diverse convergevano sulla strada che conduceva a Ruffano e camminavano in fila. Avanzavano verso Torrepaduli lentamente, con le lanterne accese sistemate in basso, sotto il carretto, per illuminare la strada. Ricordo che, stravolto dal sonno, con il capo appoggiato nel grembo di mia madre, sentivo i grandi che biascicavano preghiere che non capivo, poi risate. E finalmente, con le prime luci dell’alba, si arrivava a Torrepaduli.



Com’era allora Torrepaduli?

L’immagine che conservo nella memoria è abbastanza diversa da quella di oggi. C’era campagna, solo campagna, con vigneto, tabacco e alberi di fico. In mezzo la chiesetta. Era un santuario di campagna. Isolato. A mezza strada fra Torre e Ruffano.

Si arrivava lì la mattina, ci si sistemava in qualche posto al riparo del sole – gli alberi di fico enormi e fronzuti erano il riparo migliore – e si stava l’intero giorno. La prima cosa da fare era andare a trovare il santo. C’era una folla impressionante. Riuscire a penetrare nella chiesa era un’operazione molto difficile e faticosa, anche perché bisognava stare attenti a non pestare quelli che entravano ginocchioni o strisciavano il pavimento con la lingua. Tutti si dirigevano contemporaneamente verso la statua del santo posata su un fercolo modestamente barocco. Ricordo bene il caldo infernale che c’era all’interno, le spinte, le tantissime candele che bruciavano l’ossigeno. Si moriva dal caldo, non si respirava. Chi sveniva da una parte, chi sveniva dall’altra. Io mi ricordo – e i miei me lo hanno sempre confermato – che il primo anno, appena entrato urlai «Ecco chi mi ha fatto la grazia!», indicando la statua di San Rocco. E tutta la gente si è girata verso di me…

C’era chi offriva al Santo i propri abiti. Bambini venivano denudati dalle madri per regalare i vestiti a san Rocco. Per grazia ricevuta. Io non lo feci perché li avevo offerti a san Brizio, durante una processione fatta apposta a Calimera per questo evento. Processione che giunse fino a casa mia, dove mi spogliarono davanti a tutti e sollevandomi nudo per aria mi esibirono e mi offrirono al santo protettore di Calimera.

Mi ricordo, un altro anno, un busto di gesso offerto al Santo da una donna che era guarita miracolosamente. Altri portavano da donare comuni ex-voto in argento: chi una gamba, chi un cuore, chi una testa e le pareti della chiesa erano piene di questa roba. Un anno un giovane ha donato la stampella perché il santo lo aveva guarito e ormai camminava senza.

La situazione all’interno della chiesa era veramente impressionante. Il senso del sacro quasi tangibile. C’era una fortissima tensione emotiva che spingeva i pellegrini inesorabilmente verso la statua di san Rocco che bisognava raggiungere e toccare. Quindi spinte, litigi. I devoti facevano di tutto pur di arrivare lì e strusciare il fazzoletto sulla statua. Il fazzoletto diventava così l’amuleto che funzionava tutto l’anno, che fungeva da Santo in casa, seguendo una regola classica della magia. Quella del contatto. Nel comportamento quasi isterico dei fedeli grondanti sudore e lacrime c’era una grande dose di paganesimo. Finalmente arrivati davanti alla statua del Santo gli si offriva il pesante fardello della sofferenza, della fatica del viaggio e silenziosamente si chiedeva una grazia o si ringraziava per la grazia ricevuta. In generale si chiedeva di stare bene, ma fisicamente. Non c’era nulla di trascendentale nelle richieste. L’unica cosa che si poteva donare al Santo in cambio dei propri desiderata era la fatica fatta per andarlo a trovare. La sofferenza: uno dei valori fondamentali del pellegrinaggio antico. Oggi questo non esiste più.



Poi la sera usciva la processione…

Sì, portato a termine il saluto a san Rocco e ascoltata la messa, usciva la processione. Sì, chiamiamola così, in realtà quella che si chiamava processione non aveva alcuna struttura. Annunciata dal suono delle campane e da qualche colpo secco appariva d’un tratto sulle spalle dei fedeli la statua di san Rocco. Ricordo i visi dei devoti ammassati nel piazzale davanti all’uscita del Santo. Facce mai più viste da nessuna parte. Contadine e contadini con i visi solcati da profonde rughe bruciate dal sole che fissavano la statua che avanzava caracollando tra la folla. Gli occhi lucidi, sofferenti. Poi la massa informe si apriva in due ali disordinate che si avviavano nella strada che dal santuario porta a Torrepaduli. Camminavano un po’ alla rinfusa biascicando qualche preghiera o accennando a un canto liturgico. Ricordo il suono stridente di un megafono entro il quale qualche seminarista urlava brani di preghiere o annunciava lo smarrimento di qualche bambino. Marce eseguite da una banda scalcinata. E intanto il Santo avanzava trionfante bloccato a ogni decina di metri da emigranti devoti che appendevano dollari, marchi o franchi su nastri colorati o li depositavano in cesti di vimini oppure fermato da un gruppo di giovani, che forniti di tamburelli, gli offrivano una suonata. Ricordo la statua del Santo coperta di denaro e ricordo anche cuscini di velluto neri, sistemati sulla facciata del santuario, dove tutti potevano metter soldi. Ma i soldi li si poteva depositare anche in una sacrestia annessa al santuario, dove si segnavano le messe per i vivi e i defunti. Le offerte… C’era un commercio pazzesco. Ma tu lo sai che a metà anni settanta il giro d’affari del Santuario della Madonna di Pompei superava quello dell’Alitalia?

Tuttavia la partecipazione della gente era molto commovente. La festa di san Rocco non era quello che si pensa oggi quando si pronuncia la parola festa. Era, come tutte le feste nei santuari, una dramma quasi, piena di sofferenza ma anche di liberazione. Si andava lì perché si stava male, e si implorava di stare bene. Concretamente. Su tutto questo grumo di sentimenti forti dominava la speranza: l’inganno di un anno. E poi il ritorno l’anno successivo.

La processione, tra una sosta e l’altra, giungeva in paese e si snodava con un percorso rituale, prestabilito, lungo le tortuose e strette vie di Torre. Le case venivano aperte, illuminate per il passaggio del Santo. Le stanze così esposte apparivano pulitissime, linde. Troneggiavano lettoni enormi in ghisa e madreperla: liberty. Quando poi la via si restringeva e la gente si accalcava strusciando quasi lungo i muri si poteva anche sentire il profumo degli interni. Il profumo del basilico. Della cedrina. I colori delle dalie e delle zinie risplendevano nei portafiori. Poi col passare del tempo tutto questo si trasformò. Gli interni delle case cambiarono. Non c’era più il letto di ghisa con la madreperla. Al suo posto mostravano uno squallore pretenzioso letti di legno con incastonati nella testiera specchi a forma di ventaglio. Sedie con alte spalliere, quasi troni, la cui finta pelle era ricoperta per protezione col cellofan. Scomparvero i vasi di terracotta. Vennero sostituiti da quelli di plastica. La plastica e l’alluminio anodizzato col passare degli anni spuntarono un po’ dappertutto.

Cambiò anche il modo di vestire. Soprattutto delle donne. Prima dignitose contadine, con vestiti semplici confezionati da sartine del luogo, poi giovani alla moda con tristi abiti di pessima qualità ad imitazione di quelli ammirati sulle riviste che potevano trovare dal parrucchiere.

Al santuario di san Rocco di Torrepaduli si poteva ritrovare della gente che altrove non si riusciva più a vedere. Avevano tutti uno stesso stigma che li distingueva. Quelle facce le si poteva osservare solo lì, venute fuori da chissà dove.

Quello che ora sto raccontando avveniva nei primi anni della mia frequentazione. Diciamo fino alla fine degli anni sessanta. Poi, come le cose, cambiarono pure le persone.

Nella prima metà degli anni settanta, quando scrissi il saggio per Salento Povero, i contadini cominciarono a credere sempre meno ai santi e sempre più ai medici. Spostarono la loro fede verso la scienza, presero i “treni della speranza” e partirono per essere ricevuti dai luminari della medicina a Roma, a Parma o a Milano. Luminari che potessero salvarli dai loro mali. E compivano così un altro rito – diverso da quello di prima – ma sempre rito. Parallelamente, in una sorta di dissolvenza incrociata, arrivava al santuario una classe nuova, non più di contadini ma di impiegati e professionisti che, perduta la fiducia nella scienza, si rivolgevano di nuovo all’irrazionale, al magico, al divino. Prima questo tipo di persone non si sarebbero neanche avvicinate ad un santuario, non gli interessava. Poi ci fu questo cambiamento. Non riguardava solo il santuario di Torre, ovviamente, ma un po’ tutti i santuari d’Italia. Io rilevai questo cambiamento, anzi fui uno dei primi a farlo, e ne parlai nel mio Salento povero. Ma questo te l’ho già raccontato.



Come si passava la notte tra la vigilia e il giorno della festa?

Conclusa la processione con il trasferimento della statua di san Rocco dal santuario alla chiesa madre di Torre c’erano varie possibilità. La mia famiglia per esempio, come molti altri, si affrettava a raggiungere il proprio carretto e partire prima che si creasse grande confusione. Per tornare a casa si viaggiava di nuovo di notte. I traini procedevano lentamente, in una lunga fila, uno dietro l’altro. Poco dopo la partenza però ci si fermava perché venivano sparati i fuochi d’artificio. Tutti si fermavano a guardarli. Era una cosa fantastica! Finiti i fuochi si riprendeva il viaggio.

Altre persone invece non partivano come noi, si sistemavano intorno al santuario e dormivano nelle campagne, sotto gli alberi. Alcuni si mettevano addossati attorno ai muri della chiesa, altri addirittura dentro, in attesa che durante il sonno arrivasse il Santo a fare la grazia. Esattamente come accadeva nell’incubatio degli antichi. Coloro che decidevano di fermarsi, prima di andare a dormire, suonavano, cantavano, ballavano e mangiavano. Il cibo! Anche questo è un elemento importante in un pellegrinaggio. I primi tempi non si trovava cibo da comprare sul posto. Bisognava portarlo da casa. Poi, con gli anni, sono stati aperti luoghi di ristoro, con carne arrosto e pezzetti.

La consumazione del cibo, in qualche modo, era un fatto rituale. Non potevano mancare tra le cose da mangiare, per esempio, i sedani. Era una festa di poveri.

La mattina del 16 c’era il mercato dove si vendevano animali, attrezzi agricoli, frutta, mostaccioli, fischietti di creta e inoltre – la vera devozione – nastri colorati e ventagli di foggia rinascimentale con su stampate le immagini di san Rocco.



Hai ricordi delle ronde di tamburelli davanti al santuario?

Sì. Ma non nei primi anni di cui racconto. Apparvero verso la fine degli anni sessanta. Prima, durante la notte, ricordo solo che in più luoghi vi erano comitive che cantavano e suonavano i tamburelli, così per passare il tempo. Dopo invece, negli anni successivi, ricordo che si cominciò a formare una ressa di fronte alla cappella intorno a due uomini che accennavano una specie di pantomima al suono scatenato di tamburelli. Era gente del Capo, dall’accento. Sembrava volessero fare una schermaglia con in mano immaginari coltelli. Nel mio saggio ne parlai avanzando malauguratamente l’ipotesi che si potesse trattare di una specie di danza delle spade. Lo misi in tono dubitativo perché non avevo gli strumenti per affermarlo con certezza. La postura di chi partecipava a questa sorta di danze era in qualche modo malavitosa, sfrontata, da bullo. L’atteggiamento era quello della sfida ma per puro divertimento. Sì, si formava un cerchio di persone e questi si esibivano nel mezzo, al ritmo frenetico dei tamburelli.



Gli anziani la chiamano “scherma”…

Allora, a mia memoria, nessuno la chiamava in alcun modo.

Anzi bisognava stare alla larga. Neanche Annabella Rossi che aveva a lungo frequentato il santuario – che io sappia – si è mai espressa con certezza sull’argomento. Immagino dove voglia portarmi la tua domanda ma io, su questo punto, vorrei essere molto chiaro. Il santuario di San Rocco a Torrepaduli allora era semplicemente un santuario dove la gente si recava, seguendo un comportamento rituale, a chiedere grazie o a ringraziare per quelle ricevute. Non esisteva altra realtà. Era uno dei tanti santuari dedicati ad un taumaturgo sparsi per le contrade d’Italia. Era un luogo dedicato esclusivamente all’esperienza religiosa. Non si andava per motivi musicali. Per esibirsi in danze e in musiche. Chi allora suonava e ballava era la stessa persona che pregava e supplicava il Santo. La musica era presente, ma non era un aspetto rituale, strutturale della festa. Non aveva alcun significato specifico. La pantomima di cui abbiamo parlato era un fatto secondario, un modo per divertirsi, per passare il tempo in attesa del giorno dopo. Non aveva attinenza con gli aspetti religiosi. Con il Santo non c’entrava nulla. Si faceva di notte, dopo che tutto il rito religioso era ormai compiuto. Lo sviluppo abnorme di questo particolare è una cosa recente e avulsa dalla realtà del santuario. È un’escrescenza. Uno svolazzo della fantasia. Una di quelle bizzarrie che si vuole assolutamente inserire in una sfera di natura sacra, di cui il Salento si è riempito in questi ultimi anni. Fino alla nausea.
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