Il folk degli Aramirè

Intervista a Roberto Raheli
di Eugenia Massari
da www.lucanianet.it

Alla fine dello scorso mese di giugno, in occasione della III edizione del folk festival svoltosi a Pisa, ho avuto modo di incontrare gli Aramirè, un interessante gruppo musicale che ormai da anni si cimenta con la musica della tradizione meridionale e che ha l’idea del folk come fenomeno in fieri, e quindi ancora in vita.

Quello della tradizione opposta alla ricostruzione filologica è un dilemma che si pone per tutti i saperi che si rifanno al passato, non tanto perchè si rifanno al passato, quanto perché affermano di rifarsi al passato: costruiscono in questo modo la loro identità. E’ il problema dei revival delle culture tradizionali. A parlare con chi questa musica la fa, sembrerebbe che il problema sorga per l’ascoltatore, più che per gli esecutori: segno questo che il folk non sia poi una tradizione così morta, ansi esso si costituisce a volte ancora come genere musicale in via di trasformazione e di cambiamento; e questo è il caso degli Aramirè. Per Roberto Raheli l’esecuzione è consapevole del passato, nelle tecniche e nei contenuti trasmessi -e questo “rispetto” si sente molto nei brani- ma è anche consapevole di dover continuare quella tradizione, portarla avanti. Questa continuità viva – la definirei così – è infatti data anche dal tocco di teoricismo ed autocoscienza, che sono poi il tratto peculiare delle arti moderne. Alle mie domande sugli Aramirè -e sul loro modo di intendere la musica popolare- Roberto Raheli ha risposto a volte in prima persona, ma ha anche scelto un passo di un suo articolo: “Qualcosa in più, qualcosa in meno: purismo e contaminazione nella musica salentina” , che è il suo contributo a Il ritmo meridiano. La pizzica e le identità danzanti del Salento, edito da Aramirè, che è infatti anche una casa editrice sui temi della musica. Una precisazione va premessa: il passato di questi musicisti non è il passato informe che va indietro di secoli, ma è il collegamento diretto con le generazioni di musicisti e generi che li hanno preceduti ed il confronto (a volte anche scontro) con quelli con cui dividono la scena del …”folk contemporaneo”.

Roberto, mi diresti Chi sono gli Aramirè?
Un gruppo cui demmo vita nel 1996, dopo lo scioglimento del gruppo precedente, nato dal 1989 e a cui avevamo dato nome di Canzoniere di Terra d’Otranto – quasi a voler idealmente continuare l’opera del Canzoniere Grecanico Salentino. Scegliemmo il nome di Aramirè Compagnia di musica Salentina. Il gruppo comprende attualmente: la mia persona (voce, flauto, violino e armonica), Roberto Corciulo (fisarmonica), Stefania Morciano (voce), Raffaele Passiante (voce e chitarra), Mauro Toma (chitarra), Samuele Tommasi (tamburello). Ora Raffaele Passiante ha lasciato, forse temporaneamente, per motivi di lavoro, e Mauro Toma per dedicare più tempo all’università e quindi siamo in cinque con Antonio Ancora alla chitarra.

Come recuperate i brani che eseguite: memoria orale, esecuzioni tradizionali, esecuzioni moderne?
Sicuramente memoria orale ed esecuzioni tradizionali. Quindi conoscenza diretta da parte degli anziani o studio delle registrazioni. Le esecuzioni moderne non entrano a far parte delle fonti a cui attingiamo. Se un pezzo tradizionale è stato arrangiato da un altro gruppo di riproposta, non credo che abbia senso riprendere l’arrangiamento. Il punto di partenza deve essere sempre la tradizione, che ognuno sente ed interpreta a modo suo.

In che limiti contaminate le vostre esecuzioni?
(qui Raheli mi risponde con una citazione: un brano selezionato da “Qualcosa in più, qualcosa in meno”) “A questo punto questa diatriba fra “puristi” e “contaminatori”, “filologici” e “innovatori”, “integralisti militanti” o “archeologi della musica” e “moderni musicisti favorevoli alla libertà di espressione”, deve davvero cessare. Contaminazione. Un termine che va di moda, anche se come parola è bruttissima, mi fa pensare alla malattia, all’infezione. Il concetto però, che è quello del fondersi di due generi musicali, del non isolarsi ma del cercare il confronto ed il dialogo, quello non è davvero né brutto né negativo, anche perchè la “contaminazione” c’è sempre stata nei secoli. Qualche anno fa i nostri predecessori venivano continuamente in contatto con altri tipi di stimoli, per cui erano anch’essi già contaminati ai loro tempi e così per secoli e secoli, solo che loro, disponendo di un solido corpo tradizionale, all’interno del quale crescevano e si formavano, potevano assimilare gli innesti provenienti da altre tradizioni regionali o dalla musica colta. Antonio Bandello, l’indimenticabile cantore recentemente scomparso amava le romanze, così come Antonio Aloisi, il decano dei tamburellisti salentini ed altrettanto autorevole cantore con cui faceva coppia, Luigi Stifani invece era un appassionato di jazz, per citare alcuni esempi a noi vicini, ma le influenze si andavano ad innestare su un corpo solido, che, pur mutando, tuttavia rimaneva se stesso, non perdeva la sua caratterizzazione intima. Certo, all’interno di un orizzonte chiuso, con un corpo grande, forte della forza che gli derivava dalla diffusione capillare in tutti i settori della comunità, ogni tipo di influenza esterna poteva essere digerito ed assimilato, ma oggi non è più così. Oggi i molteplici stimoli provenienti da tutto il mondo attraverso televisione, dischi, viaggi e quant’altro hanno sommerso completamente il corpo salentino, di cui rimane solo lo scheletro senza carne, o che in alternativa è solo cadavere senza vita, che si muove ancora solo per la magia vudù del movimento di riproposta, come uno zombie. La frattura con il passato è terribile, l’orizzonte interno della comunità salentina è frantumato ed è sostituito da un orizzonte altro, quello della società globalizzata. Oggi siamo provincia della provincia, comunità comunque chiusa ed isolata, oggi come allora, ma senza neppure il conforto di una nostra identità. In queste condizioni è facile, direi quasi inevitabile sentirsi fortemente tentati dalla più bieca omologazione. E’ facile esser preda del complesso di inferiorità nei confronti della cultura cosiddetta dominante, per cui la musica dei due accordi, la musica salentina, appare banale, se non si capisce che la sua ricchezza va ricercata altrove, con altri parametri. Scervellarsi e discutere su contaminazione si, contaminazione no è una perdita di tempo, è un falso problema. Per avere la fusione di due generi musicali in uno solo è necessario che a formare il nuovo genere possano concorrere elementi sostanziali di entrambi i generi di partenza, possibilmente sperimentati attraverso un lasso temporale abbastanza lungo da permettere per evoluzione naturale alle cose più belle di sopravvivere e crescere, a scapito delle cose più brutte. Oggi la fretta di consumare tutto e subito non consentono ad un processo di questo tipo di avvenire, ma c’è di più. Pretendere che un musicista salentino di riproposta, per il solo fatto di essere geograficamente salentino, sia depositario della cultura musicale dei suoi anziani è, me ne dolgo, una forzatura terribile. Nelle sperimentazioni di fusione che oggi ascolto, è la gamba salentina ad essere carente, e dovrebbe essere potenziata per non essere soccombente e per poter dare il suo apporto alla “nuova musica salentina”. Sento parlare di contaminazione come provocazione. Ma la parola provocazione dovrebbe indicare un momento di rottura in cui chi è fermo sulle sue posizioni viene messo di fronte in modo anche brutale, ad altre idee, ad altri modi espressivi, ad altro tipo di cultura. Noi però siamo già “rotti”, siamo nati contaminati, per cui contaminare il contaminato paradossalmente diventa depurare, in quanto la concentrazione di materiali contaminanti diventa cosÏ alta da diventare purezza di senso opposto. Se continuiamo ad aggiungere elementi estranei a quelli già massicciamente presenti sotto la nostra crosta sottile di musica salentina, alla fine di salentino non rimarrà più nulla, avremo così “pura” musica “altra” in senso lato”

Si può dire che abbiate un atteggiamento per così dire “filologico”, rispetto alla musica popolare?
Si possono affrontare discorsi nuovi con la musica popolare, restando nell’alveo della tradizione, con un concerto allo stesso tempo divertente e di “spessore”? Noi crediamo di si. Nel nostro ultimo CD Mazzate pesanti c’è il tentativo di creare “nuova/vecchia” musica salentina, in cui nuovi testi attuali siano associati allo stile musicale tradizionale. Questa secondo me è una specie di terza via con cui affrontare la diatriba filologico/contaminato. A volte si ha un’idea della tradizione come qualcosa di fisso e immutabile, ma così non è mai stato, solo che la produzione di nuovi pezzi tradizionali comporta dei problemi per quello che ho detto prima. Oggi con Aramirè mi sembra di aver raggiunto un livello di consapevolezza in cui sia possibile servirsi dello stile musicale tradizionale per creare nuove canzoni salentine. I nostri nuovi pezzi però devono superare un durissimo esame all’interno della mia testa prima che li proponga al gruppo, innanzitutto perchè non li scrivo e quindi alcuni me li dimentico e ciò significa che non erano degni di essere ricordati, poi devo esserne arci convinto e solo a questo punto li faccio sentire agli altri componenti del gruppo. E i pezzi devono essere accettati da loro. Mi sembra che i nuovi brani non stridano con quelli tradizionali e il risultato mi pare accettabile. Detto questo non sta a me giudicare ma a chi ascolta il disco. Quindi né contaminazione sfrenata, né riproposta a ricalco. Un approccio morbido, attraverso il quale sia possibile sferrare mazzate pesanti…

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