Il Salento pizzicato di Edoardo Winpeare

Intervista a Edoardo Winspeare

di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello

stralcio dell’intervista contenuta nel libro Il ritmo meridiano. La pizzica e le identità danzanti del Salento, edizioni Aramirè, Lecce 2002



 

pizzicata(1)Cominciamo dal racconto del tuo ritorno nel Salento, e del tuo incontro con la tradizione e con la pizzica.

È tutto iniziato da dei motivi molto personali. (…) Per un lungo periodo sono stato in cerca di mie “radici” – una ricerca tra l’altro non ancora finita – e ad un certo punto ho deciso che io ero di qua, perché io sono cresciuto qua, e dove mi sentivo veramente “a casa mia” era qui a Depressa. Alla fine degli anni ’80 ho iniziato i miei studi sulla tradizione culturale salentina, a partire dagli innumerevoli influssi greci, romani, bizantini, normanni, e così via. Un primo risultato di questi studi è stato il documentario “San Paolo e la tarantola”, che ho realizzato nell’89 per la televisione tedesca. Da lì è cominciato il mio interesse per il tarantismo e la musica salentina.

Nel ‘90 poi ho realizzato un altro documentario come assistente e fonico in Spagna, seguendo degli zigani spagnoli che erano specializzati in una forma di musica flamenca che ricorda moltissimo alcuni canti salentini alla stisa, come quelli che fanno Uccio Bandello e Uccio Pirigallo. Lo stile di vita, la concezione del tempo e dello spazio, i rapporti familiari mi sembravano molto simili in Andalusia e in Salento. Però vedevo che loro erano molto più attaccati alle tradizioni, e questo mi portava ad interrogarmi sul come fare a riportare anche da noi l’attenzione sulle ricchezze della cultura tradizionale. Il dialetto, la lingua grica, la musica…All’inizio chi condivideva la tua sensibilità?

All’inizio? All’inizio ero solo o quasi, o meglio pensavo di essere da solo; Dall’89 al ‘92 mi sono fatto migliaia di chilometri, cercando tutti i tamburellisti, tutti gli anziani, cercando la pizzica. Dopo aver tanto girato, dietro casa – a Tricase – ho trovato Lamberto Probo, la sintesi del “sangue” del Capo.

E quando hai incontrato Lamberto?

Nel ’92. Avevo già conosciuto Zimba, che ho visto per la prima volta in Germania, insieme a Giorgio di Lecce, in un documentario della televisione tedesca che parlava di tarantismo e della pizzica, questo nel ’91. In seguito l’ho cercato e ci siamo conosciuti. Con Lamberto siamo diventati molto amici, e abbiamo deliberatamente cominciato a organizzare delle grandi feste. Volevamo far rivivere la pizzica salentina, e in maniera molto precisa, studiata. La musica salentina non è solo pizzica, ma a noi serviva la pizzica, perché la pizzica smuove, scuote, e noi non eravamo interessati solo agli aspetti musicali, ma anche a quelli sociali. Il canto alla stisa interessa pochi intenditori, mentre la pizzica coinvolge tutti. Con questa scelta abbiamo fatto un gesto “politico”, perché volevamo cambiare l’idea della nostra terra che avevamo avuto fino ad allora. Dunque abbiamo fatto queste feste, tantissime – dal ’92 al ’94 almeno 200, di cui almeno 30 in grande stile – a Depressa, a Novaglie, a Casarano, a Muro, a Novoli, a Due Masserie. L’idea era proprio di smuovere questo territorio da sotto terra, di fare la rivoluzione. Io ero interessato a tutto quello che succedeva qui; c’era il movimento dei Sud Sound System, il reggae e il ragamuffin cantati in salentino, e io volevo fare la stessa operazione che avevano fatto i Sud Sound System con la pizzica, perché ne sentivo il potenziale. Quello che ho fatto in questi anni è stato di prendere tutti i gruppi, contattarli, invitarli.

Quindi a un certo punto vi siete incontrati con altri che già facevano cose simili in altri posti del Salento.

Si. C’erano delle persone che contemporaneamente facevano cose simili, stranamente simili. C’era il Canzoniere di Terra d’Otranto che lavorava parallelamente a noi nel centro-nord della provincia, c’erano i Ghetonìa a Calimera, e il Canzoniere Grecanico Salentino a Lecce. Loro facevano solo musica, io facevo filmati, fotografia, e volevo che questa musica diventasse il flamenco d’Italia, o il tango d’Italia. Il nostro gruppo iniziale si chiamava Alla Bua, che poi è diventato Zoè. A differenza degli altri, avevamo la precisa volontà di rendere questo movimento di massa: volevamo che migliaia di persone conoscessero la pizzica. Per questo abbiamo deciso di fare le feste, delle bellissime feste, ben preparate, con un forte impatto scenografico. Volevamo dare una dignità alla pizzica.

Quindi in pratica su di un movimento spontaneo hanno agito degli “intellettuali” con un programma quasi “politico” preciso…

Si. Poi volevo trovare la qualità nei musicisti e nei ballerini, anche quella estetica. Volevo delle persone belle, affascinanti, perché potessero comunicare meglio con i giovani. Da qui nasce la formazione degli Zoè.

E veniamo a Pizzicata.

Pizzicata è stata un po’ la sintesi di tutto questo. Io all’epoca ero pieno di passione e di amore, quindi volevo che tutti partecipassero al film. Forse il troppo amore per questa cultura e per questa musica mi hanno fatto trascurare il cinema, dovevo stare più attento alla storia. Per esempio i personaggi sono a volte troppo “belli” per essere credibili come contadini. Volevo raccontare non solo quello che c’era di affascinante nel rituale del tarantismo, nella musica salentina; volevo anche trovare tutto quello che c’è di nobile nella figura del contadino, dare dignità alla figura del contadino, dal mio punto di vista. È stato un tentativo, penso in parte riuscito.

La maggior parte di coloro che si avvicinano oggi alla pizzica ci arrivano non con i mezzi consueti della tradizione orale (per esempio dai “racconti dei nonni”), e neanche attraverso letture complesse come può essere “La terra del rimorso” di Ernesto De Martino, ma piuttosto attraverso le feste, i concerti e sicuramente i tuoi film. Dunque, semplificando, tu a un certo punto, hai “deciso” una rappresentazione del “mondo contadino”, della pizzica e del tarantismo che tanta gente avrebbe poi considerato “autentica”. Mentre facevi il film tu avevi coscienza di stare in qualche modo inventando uno “scenario” in cui poi in tanti si sarebbero riconosciuti?

Si, ero cosciente, ed ero anche preoccupato, perché sapevo il potere che avevo in mano. Sapevo che, volente o nolente, facendo un film del genere io raccontavo il Salento. In quel momento storico – i primi anni novanta – gli ultimi “depositari” stavano scomparendo, e io avevo la consapevolezza che dovevo al più presto fare qualcosa con la musica e con il cinema che mantenesse un filo. Quindi misi in cantiere un documentario sulla pizzica e un film. Naturalmente sono stato influenzato da Mingozzi, dalle registrazioni audio-video di Chiriatti e di Oronzo Marmone, che avevano moltissimo materiale inedito, e non avevano mai pensato di pubblicarlo. In Italia c’era bisogno di questa operazione, e noi siamo i primi e gli unici ad averlo fatto in queste dimensioni. Il Salento è diventata la Woodstock d’Italia, qui vengono da tutte le parti d’Italia e d’Europa per imparare il tamburello, o a ballare la pizzica, e sono migliaia. È uno strano movimento che nessuno ha capito, quasi un movimento di Seattle – antiglobalizzazione – musicale.

Nell’enorme diffusione della pizzica non vedi anche dei rischi di omologazione e di commercializzazione?

Certo, questi rischi ci sono. Comunque ora abbiamo molti anni di esperienza, e ci sarà sempre più una scrematura tra le cose di qualità e le cose di scarsa qualità. Gli Zoè ad esempio hanno sempre cercato la qualità, e la loro pizzica è un passo avanti. Ci saranno prodotti più commerciali, ma anche musica più raffinata.

Io volevo che qualcosa succedesse qui, e mi sembrava che il tarantismo e la pizzica fossero degli elementi che rendono speciale questa terra, che la legano al Mediterraneo e al Nord-Africa, alla Grecia e alla Turchia, che la rappresentano come limes tra mondo latino e mondo greco, e quindi li ho utilizzati nel mio cinema. La prima volta che ho sentito una pizzica, il tamburo e i sonagli hanno avuto su di me l’effetto che avevano su di una tarantata. Il fatto di regolare il suono dei sonagli attraverso un ritmo scandito mi ha scosso dentro. Quindi mi sono mosso anche in base a degli impulsi irrazionali, che in me erano molto forti. Io ero un figlio di papà, cresciuto in una famiglia aristocratica, che a un certo punto ha scoperto la sua vera natura di uomo, di persona, attraverso il battito del tamburo. Tutte le mie sovrastrutture sociali, dovute a secoli di storia, con la pizzica sono andate a farsi fottere. Io ero diventato una specie di fauno, spendevo un sacco di soldi per organizzare le feste.

(…)

La nostra idea è che Pizzicata rappresenti la ricostruzione della tradizione, mentre Sangue Vivo è il tentativo di dare uno sguardo sul Salento di oggi, con le sue fascinazioni, ma anche con le sue contraddizioni. Mentre sulla “bellezza” di Pizzicata sono d’accordo quasi tutti, Sangue Vivo ha suscitato reazioni molto contastanti. Quale è stato, secondo te, l’impatto di Sangue Vivo sul “movimento” salentino?

È stato accolto bene dai giovani, perché ci si sono riconosciuti, e meno bene dagli “innamorati del Salento”, quelli che vedono – o vogliono vedere – solo la bellezza da cartolina della nostra terra, senza guardare alle sue contraddizioni. In questi film io ho puntato molto sulla musica, ho chiesto agli Zoè di farmi la pizzica “nuova”, una musica che esprimesse rabbia, ribellione, rivoluzione, infatti anche nei testi c’è tutto questo. Che esprimesse il “tarantismo moderno”, anche se questa definizione non mi piace molto ed è comunque impropria. Pizzicata era quasi tutto frutto del mio lavoro, della mia testa e del mio cuore, invece Sangue Vivo è partito da una mia idea, ma ci ha lavorato una sceneggiatrice e un produttore. Ho cercato di guardare con più distacco il Salento, che non è solo un posto mitico dove tutti sono discendenti di qualche popolazione antica, ma un posto con tutti i mali dovuti alla logica del mercato; in più siamo una periferia che diventa sempre meno periferia, perché adesso si è aperto il canale verso est. Allo stesso tempo questa è un terra interessante proprio perché ricca di contrasti, e io volevo raccontare tutto questo. Grazie a Dio il Salento non è più quello di Pizzicata.

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