Olevano sul Tusciano è un comune di 6.600 abitanti in provincia di Salerno, limitrofo a Eboli e Battipaglia. Nel territorio di afferenza, sul versante occidentale del Monte Raione, in una zona ancora oggi aspra e selvaggia, si apre un’ampia grotta che conserva un articolato complesso religioso, di origini remote, dedicato a san Michele Arcangelo.
Le prime fasi insediative del santuario sono da collocarsi fra la metà del VI secolo e gli inizi del VII e documentano tracce di un culto probabilmente precedente a quello micaelico; sono posteriori invece le cinque cappelle con altari destinate a custodire le reliquie dei santi venerati e ancora successivi gli interventi di ampliamento e riqualificazione sempre più orientati all’esclusivo culto del protettore dei Longobardi. In quell’epoca vengono anche realizzati i preziosi affreschi di epoca coeva che arricchiscono larghe porzioni perimetrali.
Il sito, investito del prestigio dei principi dominanti, diventa meta di intensi pellegrinaggi da tutta Europa (e non solo), finché, anche a causa dei cambiamenti politici che riguardano questo territorio, con la presa del potere da parte dei Normanni, dalla fine dell’XI secolo affronta un inarrestabile declino che conduce all’abbandono degli spazi cultuali. Tale precoce brusca interruzione ha garantito la conservazione delle strutture e degli strati archeologici come non accade in altri santuari assimilabili, a partire da quello garganico di Monte Sant’Angelo.
Il culto resta tuttavia vivo in ambito popolare. Annualmente l’8 maggio si tiene una lunga processione che scala la montagna accompagnata da distintive espressioni musicali – molti tamburi e pochi pifferi, che eseguono “il passo” e la “rullata” – e dal caratteristico “gioco della bandiera”, per giungere nella cappella della grotta dove eseguire ritualmente nove giri, alternando passo e rullata[1].
Le numerose campagne di scavo condotte fra il 2002 e il 2015, coordinate da Alessandro Di Muro, docente presso l’università della Basilicata, hanno riportato alla luce reperti di profondo interesse per quantità di esemplari, provenienza da aree anche molto distanti e raffinata fattura. Spiccano fra questi i flauti in osso – in un numero che non trova confronti nell’Europa altomedievale – e una bacchetta di tamburo, riferibili alla seconda metà del X secolo, epoca in cui alla musica strumentale erano del tutto preclusi i contesti religiosi. I flauti, ricavati da tibie di ovicaprini, erano stati abbandonati in gran parte ancora funzionanti: potevano essere suonati da soli o con la tecnica, ancora usata in alcuni contesti popolari meridionali, del “flauto doppio”. Contestualmente sono stati ritrovati anche dei coltelli che probabilmente furono utilizzati per la loro costruzione.
A tali straordinarie testimonianze – è questa la tesi dominante tra gli studiosi – potrebbero essere associati rituali “di cura” musicali e coreutici. Nel corso di un recente convegno, infatti, di cui da poco sono stati pubblicati gli atti[2], Alessandro Di Muro ha proposto una suggestiva ipotesi di lettura dell’evoluzione storico antropologica del culto olevanese. Intrecciando dati archeologici e storiografici, attraverso un metodo di analisi fortemente debitore dell’eredità demartiniana, l’autore arriva a collocare le prassi terapeutiche praticate nel santuario al termine di un lungo processo di “riplasmazione” – in una versione più accettabile per la Chiesa – di precedenti pratiche pagane, di cui ricorrono ampie tracce nel territorio circostante.
Seguendo la complessa trama della ricostruzione proposta da Di Muro, il pellegrinaggio al santuario doveva rappresentare una “prassi eminentemente penitenziale, con forti connotazioni funerarie, iatriche e taumaturgiche”. Si tratterebbe dunque di un centro “terapeutico”, destinato a ricevere “un’umanità sofferente che affidava la risoluzione terapeutica di traumi, malattie, labilità, disagi esistenziali all’intervento del santo”. In particolare il culto di san Michele risulta legato alla liberazione dalla possessione, attraverso un cerimoniale di “reintegrazione” comunitaria di cui non conosciamo lo svolgimento, perché su questo le fonti scritte tacciono, mentre l’atto del pellegrinare promette di risolversi a protezione dei tanti pericoli che assillavano esistenze decisamente precarie. Nella narrazione iconografia olevanese la contestuale presenza dei Magi e dei santi Cosma e Damiano sembra rientrare nello stesso ambito semantico, ma particolare rilievo assume san Vito, la cui devozione come è noto si lega alla liberazione dalle coreomanie e da varie forme di oppressione occulta, tra cui forse anche l’epilessia. Secondo la Passio che ne narra la vita, fu martirizzato bambino ai tempi dell’imperatore Diocleziano, intorno al 303, e sepolto insieme ai compagni Modesto e Crescenza nei pressi del fiume Sele, dove si rintraccia ancora, nella zona della foce, una cappella a lui dedicata, mentre nella stessa area indagini archeologiche hanno rivelato la presenza di una basilica edificata intorno agli inizi del V secolo, che probabilmente custodiva il corpo dei tre martiri.
Di Muro ipotizza – anche per il legame documentato dalle fonti fra il santuario di san Vito al Sele e il santuario del Tusciano – che la custodia di parte delle reliquie del santo sia traslata dal primo –abbandonato a causa delle violente esondazioni, che provocarono probabilmente una dispersione delle spoglie – al secondo. In ogni caso, la condivisone dello spazio cultuale tra il due santi Michele e Vito, sembrerebbe rafforzare l’ipotesi che il pellegrinaggio olevanese avesse una forte caratterizzazione curativa, per le “malattie” del corpo e dell’anima. A suggerire l’esecuzione di pratiche terapeutiche musicali è inoltre l’effigie, fra gli affreschi del santuario, di san Giovanni – che con san Vito veniva invocato per la cura delle agitazioni coreiformi e danzimanie di vario genere, ampiamente diffuse nell’Europa medievale e moderna (tanto da essere appunto identificate anche col nome di “ballo di san Vito”) – e si potrebbe considerarne sopravvivenza l’uso di circumnavigare intorno alla cappella principale del santuario per chiedere indulgenze, attestato dal XVII secolo e tuttora consuetudine nelle occasioni festive al ritmo di flauti e tamburi.
Parrebbe dunque di trovarsi in presenza di un sistema rituale non tanto legato al culto di un santo specifico, ma più ampiamente responsivo delle diffuse prassi esercitate da comunità occasionali –assimilate nella categoria degli ossessi – rivolgendosi a un’ampia varietà di santi esorcisti, dal momento in cui, nel contesto medioevale, movimenti incontrollati o frenetici del corpo e disagi di largo spettro confluivano prontamente nel vasto “contenitore semantico” della possessione diabolica, destinato a comprendere molteplici “declinazioni del negativo”.
Una testimonianza eccezionale e sostanzialmente inedita riportata da Di Muro per avvalorare la sua ipotesi ricostruttiva, proveniente proprio dall’area salernitana dei primi decenni dell’XI secolo, è quella che vede protagonista il medico Garioponto, il quale scrive che coloro che venivano colpiti da una particolare agitazione coreutica – chiamata Anteneasmon – “credendo di udire suoni riecheggiare nelle loro orecchie, cominciavano a danzare agitando le mani e saltellando e, non appena udivano suoni di certi strumenti, di cui si dilettavano molto, all’istante iniziavano a ballare, spesso accompagnandosi con una spada (gladium), con la quale talvolta si laceravano”. Secondo alcuni, “si trattava di individui posseduti da demoni che li facevano agitare e ferire”. Garioponto aggiunge che a volte tale agitazione poteva essere provocata dal morso di un cane rabido, condizione che richiama la tradizionale attribuzione a san Vito di poteri curativi nei confronti degli idrofobi, ma che anche insiste sul “simbolo” dell’animale che morde e avvelena, come emblematicamente nel tarantismo, fenomeno che riecheggia più volte nella descrizione dell’archiatra salernitano (ad esempio, quando si dice della particolare sensibilità ai suoni di determinati strumenti, che richiedono “esplorazione musicale” e il ballo con la spada).
I ritrovamenti archeologici di cui si è già accennato – databili al X-XI secolo – di flauti e percussioni, strumenti spesso usati in “terapie” simili (dall’antichità al tarantismo compreso), insieme a frammenti di spada, consentirebbero allora di ipotizzare che nell’alto medioevo comparabili “riti di reintegrazione coreutico-musicali” si svolgessero proprio nel santuario olevanese.
Di Muro ritiene inoltre – come de Martino riguardo al tarantismo – che simili rituali siano stati poi assimilati nelle forme del culto cattolico, e ne rintraccia, analogamente all’etnologo napoletano, i processi di formazione e gli “antecedenti”.
In anni ancora relativamente recenti, d’altro canto, Annabella Rossi e i suoi allievi hanno documentato in questi territori forme di tarantismo rimaste in funzione fino agli anni ’60 del secolo scorso[3], con caratteristiche in parte simili al più noto fenomeno pugliese, in parte differenti, in particolare per l’assenza di rapporti organici con santi o similari, ma si può risalire ulteriormente alle Antichità pestane (Napoli 1819) del canonico Giuseppe Bamonte di Capaccio, che riferisce di un caso da lui direttamente osservato, provocato da un insetto chiamato tarantola che si poteva trovare specialmente nel luogo detto “Tempe di S. Paolo”, nelle vicinanze di Paestum. Per finire due fra le più importanti testimonianze sul tarantismo in Campania, risalenti al XVII secolo e dotate anche di un raro corredo iconografico, attestate in luoghi non molto distanti da quelli considerati da Di Muro, descrivono l’uso della spada durante il ballo, allacciandosi in qualche modo allo straordinario scritto di Garioponto[4].
Concludendo, per l’autore molti indizi conducono all’ipotesi di un radicamento, temporalmente profondo, di pratiche coreutico-musicali a fini terapeutico-catartici, di cui si trovano tracce in epoca magno-greca presso il santuario di Era Argiva alla foce del Sele, dove aveva grande rilevanza anche il culto di Apollo, nella Paestum romana e nelle aree anelleniche della Piana di Salerno (fra Montevetrano e Pontecagnano), dove erano molto vivi i culti dionisiaci. Sarà l’intervento della Chiesa a considerare i disagi trattati come frutto della possessione di demoni, identificati con le vecchie divinità pagane, e – secondo l’ipotesi di Di Muro – attribuirne, in quest’area geografica, la cura al patronato di san Vito. Inoltre, “l’insorgenza di comportamenti alienati rivelati attraverso scuotimenti violenti dei corpi” sarebbe per l’autore “il portato di un disagio dovuto allo sradicamento di antiche prassi devozionali, esito della repressione ecclesiastica che, di fatto, andava a sopprimere quell’orizzonte ritualizzato di deflusso di crisi esistenziali, angosce e tensioni che le feste pagane garantivano alle comunità locali” in occasione dei momenti più critici dell’anno per le sorti delle produzioni agricole. La festa di san Vito, celebrata il 15 giugno, nei giorni cruciali della mietitura, poteva dunque essere per le comunità locali una valida alternativa alle celebrazioni pagane, e allora probabilmente nel culto tributato al santo presso la grande grotta sul monte – analogamente altri contesti italiani ed europei – sarebbero confluite anche più remote pratiche terapeutiche di tipo coreutico-musicale, in particolare quelle accompagnate da strumenti a fiato e percussioni, controllate in un dispositivo rituale su cui la Chiesa poteva esercitare la propria sorveglianza.
Una ricostruzione di lungo periodo ricca di suggestioni – e certamente da verificare e approfondire – che colloca i preziosi ritrovamenti archeologici della grotta-santuario di Olevano sul Tusciano nella vasta storia antropologica di una località tanto conservativa e attrattiva.
[1] Le prime importanti rivelazioni sonore a Olevano sul Tusciano in occasione dei festeggiamenti in onore di San Michele sono quelle eseguite da Paolo Apolito l’8 maggio del 1973, oggi conservate presso l’Archivio Sonoro della Campania. Sul repertorio popolare del paese è in corso una ricerca da parte di Angelo Plaitano.
[2] Il santuario di San Michele a Olevano sul Tusciano. Atti del Convegno Internazionale “La Grotta di San Michele ad Olevano sul Tusciano, Salerno, 24-25 novembre 2018, a cura di Alessandro Di Muro e Richard Hodges, Viella 2019. Oltre al denso saggio del curatore, L’arcangelo, il martire e la danza degli ossessi: ideologie politiche e percorsi di rigenerazione nel santuario del Mons aureus, pp. 95-158, si segnalano quelli di Francesco La Manna Considerazioni sugli strumenti musicali altomedievali in osso rinvenuti nella grotta dell’angelo a Olevano sul Tusciano (pp. 233-252), dove i flauti olevanesi vengono comparati ad altri strumenti simili rinvenuti in Italia e in Europa, e di Angelo Plaitano, Pasquale Di Lascio, Giovanni Saviello, Il flauto, il tamburo, la spada e la bilancia (pp. 353-381), in cui si avanzano puntuali considerazioni organologiche sugli strumenti, alcuni dei quali sono stati dagli autori, con tutte le accortezze del caso, rimessi in condizione di suonare.
[3] Annabella Rossi, E il mondo si fece giallo. Il tarantismo in Campania, Qualecultura/Jaca Book, Vibo Valentia 1991.
[4] Mi riferisco al suggestivo disegno realizzato da Willem Schellinks, un olandese che visitò Napoli nella primavera del 1664, rappresentante una mirabile scena con La danza di una donna punta da una tarantola, probabilmente osservata a Capodimonte, in cui una giovinetta tarantata balla con in bocca una spada adorna di nastri colorati, accompagnata da un’altra donna che regge tra le mani un panno rosso. Sostengono il ballo una suonatrice di tamburello, un suonatore di chitarra battente ed un violinista, mentre gli addobbi rituali ricorrenti in molte altre fonti storiche sul tarantismo (lo specchio, la spada, il rametto fiorito) completano la scena. Altra immagine emblematica, di qualche decennio posteriore, è quella dipinta su un raro e prezioso ex voto conservato presso il santuario della Madonna dell’Arco a Sant’Anastasia, dove è rappresentato un tarantato che balla impugnando uno spadino, adorno anche in questo caso di nastri colorati. Sulle fonti del tarantismo in Campania ho scritto più diffusamente in Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale, Itinerarti 2021, pp. 75-95.
Articolo originariamente pubblicato su Insula Europea, 25 gennaio 2022