In un libro il prezioso lavoro di Vincenzo Santoro
di Lucio Pierri, da Buonasera Taranto del 21 agosto 2021
Vincenzo Santoro, dopo venti anni di applicazione, di studi, e di pubblicazioni sul fenomeno del Tarantismo, ( la sua prima opera: “Il ritmo meridiano, La pizzica e le identità danzanti del Salento”, risale al 2002) , pubblica ora i risultati della sua ininterrotta ricerca in un volume intitolato : “Il tarantismo mediterraneo – una cartografia culturale”.
Fenomeno complesso, dalle mille sfaccettature, che vede proprio in il suo epicentro in Taranto, “Capitale del tarantismo”. Già nel XV secolo l’umanista Elisio Calenzio, che risiedette a Taranto per trenta anni come precettore del giovane Federico d’Aragona, ne individuava tutta la complessità in una colorita pagina delle sue “Epistolae ad Hiaracum”. Sentiamo le sue parole: “ I Pugliesi, furiano, hanno tarantole così velenose che difficilmente si può credere in quante diverse specie si dividono o quanto differiscono i modi di curarsi dai veleni. Dicono che alcuni chiedono di essere sepolti vivi, altri di essere trascinati per i piedi nella città, altri allo stesso modo per mare, perché altrimenti morirebbero. C’è chi gradisce barche o battelli con canti e musica, c’è chi cerca sesso, chi lo rifiuta, chi mangia di continuo, chi fa qualcos’altro di ignobile. La maggior parte di loro invero si è abituata a saltare al sole durante l’estate infuocata e a bere vino, non diluito con l’acqua, perché credono che il veleno si sciolga nel sudore e svanisca; altri cercano vesti verdi, altri rosse, altri proprio nessuna; altri ascoltano volentieri la sampogna e il sistro e credono veramente che quel suono li possa guarire”
Taranto epicentro, ma ignote le origini, e fenomeno diffuso in tutta la Puglia, in Campania , nel Sud d’Italia, Sardegna, Spagna, e con relazioni con rituali analoghi in area africana e islamica. Finanche un episodio documentato negli Stati Uniti. Le congetture sull’origine del male: dovuto al morso della tarantola o a disagio sociale, repressione sessuale, passione smodata per la musica, erano le più varie, come più varie erano le teorie curative. Il Carducci, nel 1771, nel suo commento alle “Delizie Tarantine” del D’Aquino, ci informa che il padre Antonio Minasi, nella sua cella del Convento di San Domenico, allevava tarantole di ogni specie per studiarne l’anatomia, il comportamento amoroso, la esistenza del supposto veleno. Erano tante le persone che “furiavano” a Taranto, che la Municipalità , come servizio sociale, retribuiva musicisti specializzati per suonare ai tarantati poveri che non potevano permettersi quella spesa.
Onnipresente la musica, se non in pochissimi contesti diversi. Musica che doveva essere gradita al tarantato o alla tarantata. Il suonatore, prima di decidere quale brano musicale adoperare, tentava diversi motivi avvicinandosi al tarantato, che rimaneva impassibile sino a che non udiva l’accordo giusto e cominciava a muovere i primi passi di danza, in un crescente ritmico via via più veloce. I suonatori tarantini, professionisti pagati dalla municipalità, per rendere più agevole e sicura la cura, dopo essersi informati sul luogo dove era avvenuta la morsicatura e sul colore della tarantola, si recavano sul posto per trovare l’armonia giusta: ”Ricevuta l’informazione, i terapeuti citaredi sono soliti recarsi nel luogo indicato, dove le tarantole, in gran numero e di vario genere, sono indaffarate a tessere le loro tele, per tentare vari tipi di armonie, al cui suono- cosa mirabile a dirsi- vedono sussultare ora queste ora quelle”. Una volta che si vedeva prorompere nel ballo la tarantola del colore indicato dal tarantolato, si era sicuri del motivo da suonare. Secondo le varie patalogie, possessioni, o isterismi che si voglia, il tarantato, che aspettava i suonatori, poteva vestirsi da femmina e viceversa la donna da maschio, oppure presentarsi vestita da sposa o agghindata per una festa. Così come poteva presentarsi con i vestiti laceri, ignuda, in una sorta di sospensione delle regole sociali.
Ovviamente il fenomeno si prestava a camuffamenti di ogni tipo, per spillare soldi dagli spettatori, per evitare il servizio militare; per indurre al meretricio, in particolare a Napoli con la “tarantella semplice” o “cumpricata”. Abele De Blasio, medico Napoletano che nel 1897 aveva avuto modo di osservare personalmente questa rappresentazione da lupanare così la descrive: “Si andava laggiù in parecchi, e si diceva a qualche vecchia strega, orribile ammasso di cenci e di rughe, di voler assistere alla danza. La vecchia si dava da fare, correva in giro per le botteguccie e poco dopo si vedevano sgusciare dalle medesime, ombre di femmine avvolte negli scialli.” La scena del ballo si svolgeva in un camerone sottoposto alla strada, adibito contemporaneamente per cucina, dormitorio, per nido d’amore, per latrina; diviso a mo’ di sipario mediante una lurida tendina. “Nudi , laidi corpi di donne, si abbandonavano urlando, picchiandosi, strappandosi i capelli, rotolandosi per terra, tra le bestemmie e i ritornelli di caverna. Ballavano , saltavano, il chiasso, il tanfo dei lucignoli di sego e delle grommate mura le stordiva”. Se si trattava della “cumpricata” ad un cenno della vecchia, a suon di tamburo, sbucavano sulla scena anche degli uomini ignudi “che si avventarono su quelle larve e se le trascinarono dietro ‘o sipario’. Ciò che successe non oso descrivere”.
La ricerca di Santoro, ricca di riferimenti bibliografici e citazioni di autori antichi e moderni, richiederebbe anche conoscenze musicali per essere compresa appieno; la scientificità dell’elaborato è tuttavia alleggerita da snellezza di esposizione e non mancano particolarità aneddotiche e gustose macchiette, come quella narrata da Andrea Pigonati nel 1779: “ Stando io in Brindisi un Canonico mio amico maritò una nipote, e diede una festa da ballo. Egli aveva una sorella, che anni prima aveva sofferto il Tarantismo, ma ciò non era pubblico. Un nemico del Canonico, e della sorella, disse di voler ballare, ed ordinò a suonatori di suonare la contraddanza della Pizzicapizzica, ch’era appunto quella colla quale era guarita la sorella del Canonico e venendo ciò eseguito dai suonatori essa si alzò e cominciò ad urlare, e a ballare, onde si cambiò la festa in lutto.”
Con questo lavoro Vincenzo Santoro amplia di molto l’orizzonte conoscitivo del De Martino, che nei suoi studi sul campo, pubblicati nel 1961, si era limitato ad esplorare il fenomeno, o quello che rimaneva di esso, nel basso Salento, e in particolare a Galatina, dove il fenomeno era stato assimilato al culto religioso, con l’intercessione di San Paolo,che assicurava la guarigione a chi si recava in pellegrinaggio nei giorni 28 e 29 giugno nella sua cappella. Anche le successive ricerche sul campo, nel periodo in cui il rito della taranta era ancora presente, non avevano cercato di produrre una sistematica ricerca negli altri territori limitrofi a quelli indagati nella “Terra del rimorso”.
Questo aveva portato ad una “femminilizzazione” del fenomeno. Erano soprattutto le donne a recarsi alla cappella di Galatina: 32 su 37, annotava il De Martino. Nelle abitazioni, dove si conservava il rito antico della musica da violino e dei tamburelli, i denudamenti, le pose oscene, i canti degli amori agonizzanti, i riferimenti alla taranta che morde il pube, collegavano direttamente la possessione all’eros precluso dalle convenzioni sociali, alle giovani donne, zitelle, vedove o spose infelici. Viceversa, ricerche nel resto della Puglia, in Campania, in Sicilia, in Spagna, hanno dimostrato che il fenomeno riguardava indistintamente, in egual numero, uomini e donne.
Molti osservatori, antichi e moderni, hanno guardato al Tarantismo come sopravvivenza dei culti orgiastici magno greci rappresentati nella pittura vascolare antica. Del resto l’uso della musica a fini terapeutici non era sconosciuto nell’antichità. Sappiamo che Aristosseno, tarantino, guarì un uomo di Tebe impazzito al suono orrendo delle trombe di guerra. Il fatto che quell’uomo gli si fosse presentato dopo aver consultato un oracolo ci rivela quanto il nostro fosse noto, oltre le sue opere sulle teorie musicali, anche per gli studi sulle proprietà medicamentose della musica nelle malattie mentali.
Il Campo di ricerca è ancora aperto. A me piace riflettere sulla interpretazione che del fenomeno ne dette il Carducci nelle citate “Delizie Tarantine” del D’Aquino: non era il morso della innocua tarantola a provocare quegli stravaganti sintomi, ma la musica orgiastica in soggetti isterici o ipocondriaci; su quei Pugliesi “passionatamente dediti alla musica, e quasi ubriachi d’amore per essa”.
Maggiori informazioni sul libro qui: https://lnx.vincenzosantoro.it/2021/06/11/il-tarantismo-mediterraneo-una-cartografia-culturale/