L’incontro con San Sperate (e poi con Orgosolo): due tappe decisive della tournée italiana dell’Odin Teatret. Un regista con la sua compagnia. Uno scultore con la sua gente.
di Elisabetta Randaccio, da Sardinia Post Magazine n.9, novembre/dicembre 2017
L’arrivo dell’Odin Teatret nel meridione italiano – evento al quale Vincenzo Santoro ha dedicato il suo ultimo lavoro Odino nelle terre del rimorso. Eugenio Barba e l’Odin Teatret in Salento e Sardegna (1973-1975), edizioni Squilibri – si configurò con una tournée assai speciale, ma soprattutto divenne un necessario rimettersi in discussione del gruppo sia negli obiettivi, sia nella metodologia performativa. All’epoca del viaggio in Italia, l’Odin era già una compagnia teatrale di successo. Nata nel 1964 in Norvegia, fondata e animata da Eugenio Barba, italiano, da tempo residente in Scandinavia, aveva proseguito la lezione del grande maestro polacco Jerzy Grotowski, approfondendone le impegnative tecniche di training.
I primi spettacoli, Ornitofilene, Kaspariana, Ferai regalano all’Odin la partecipazione da protagonisti alla Biennale Teatro di Venezia e il riconoscimento internazionale. La compagnia di Barba, però, all’inizio degli anni Settanta, si mette in discussione, si scioglie e si ricompatta facendo di Holstebro, in Danimarca, la sua sede stabile. Questa nuova stagione coincide con uno spettacolo memorabile, La casa del padre, ispirato alla vita e alle opere di Dostoeskij e, come ci racconta Santoro nel libro, «si presentava come un montaggio di azioni improvvisate, eseguite da sette attori, (cinque ragazzi e due ragazze) sconvolgente per chi ebbe modo di assistervi». Si tratta della performance, pensata, come le altre dell’epoca, per un numero ristretto di spettatori, che Barba e il suo gruppo decidono di portare nel meridione italiana, in Puglia e, in seguito, in Sardegna. Siamo nel 1973 e l’Odin è alla ricerca di nuovi stimoli antropologici e culturali, ha la necessità di arrivare in “luoghi senza teatro”, dove ci si possa riappropriare del “fare rappresentazione” come rituale primitivo. La compagnia viene inviata dapprima nel Salento, supportata da illuminati docenti universitari, dagli studenti, da animatori culturali che prevedono insieme alle performance alcuni seminari di approfondimento.
La casa del padre sconvolge gli spettatori più preparati, ma nel pubblico digiuno di teatro evoca la memoria popolare del tarantismo. Così, l’attrice a cui viene sfilato in scena un boa di struzzo nero, da un contadino viene interpretata «come se l’uomo la stava liberando dal serpente mandato da San Paolo, e vedi che dopo era tranquilla e cantava». Insomma, sin dalle prime presenze dell’Odin in Salento (importantissima sarà la “residenza” a Carpignano tra la primavera e l’autunno del 1974) prenderà forma quell’attenzione alla cultura popolare, soprattutto al patrimonio musicale e coreutico, su cui negli anni a venire “si sarebbe costruito un tumultuoso movimenti di ‘patrimonializzazione’ e di marketing territoriale”.
È in Sardegna, però, che l’esperienza dell’Odin riceve un input unico, capace di rivoluzionare i suoi obiettivi artistici. Nella nostra isola il gruppo teatrale giunge per merito di Pierfranco Zappareddu, che, a Holstebro, era arrivato per una esperienza formativa. Si era pensato, inizialmente, a una tournée da circuito ufficiale, ma ben presto si decise di portare, nel gennaio del 1974, La casa del padre in due paesi sardi senza strutture teatrali consolidate. La prima tappa è San Sperate, che pare l’ideale spazio per gli spettacoli dell’Odin. Il paese, infatti, vive un momento di straordinaria evoluzione culturale, dominato dalle iniziative e dall’arte di Pinuccio Sciola, che era reduce dal Messico e dal confronto con David Alfaro Siquieros e aveva fatto “del muralismo la chiave di apertura e di crescita della sua comunità”. Gli attori dell’Odin sono assai colpiti dal paese-laboratorio, dall’accoglienza di Sciola e della comunità tutta. Gli spettacoli sono ancora pensati per sessanta persone per volte, privilegiando proprio gli abitanti, che vi assistono con stupore e curiosità. Alberto Rodriguez in un suo articolo, scriverà come “Lo spettacolo finisce e non si sa se applaudire o stare zitti. Sfolliamo in silenzio e poi cominciano i commenti”. C’è chi dice di non aver capito, che è stato al gioco divertendosi, una donna ha ammirato l’energia delle attrici, un’altra pensa che “poteva essere un racconto di spiriti e di mostri come quello dei fantasmi che raccontano ai bambini”. Sicuramente le partecipazione attiva e emotiva per la presenza dell’Odin a San Sperate fu molto intensa.
Orgosolo fu la seconda tappa, un paese che affascinò subito la compagnia danese, la quele rimase, però, perplessa perché “assomigliava a un territorio occupato. Soldati e carabinieri fermano spesso le automobili sulle strade con i mitra spianati”. Il paese barbaricino si trova in un momento storico difficile, complesso, ma denso di fermenti importanti, decisivi per la sua popolazione. L’accoglienza all’Odin è inaspettata, perché molto “passionale”, coinvolgente, creativa. Il pubblico commenta e partecipa allo spettacolo, poi chiede di discutere, vuole spiegazioni. È a questo punto che si origina quello ce diventerà un fondamento della metodologia drammaturgica dell’Odin: nasce il “baratto culturale”. Gli orgolesi, infatti, dopo la performance portano chitarre, fisarmoniche, iniziano a cantare, a ballare, piegano alle loro “regole” gli attori stranieri. Allo spettacolo successivo lo sconvolgimento sarà più estremo. L’Odin, per la prima volta nella sua storia, non reciterà per un un piccolo gruppo; la performance, dunque, sarà realizzata in una palestra gremita di spettatori, diventerà “una strana danza di attori e luci”, seguita e preceduta da canti, balli e persino dal gioco della morra, “lotta cantata”. Eugenio Barba e i suoi compagni saranno profondamente influenzati da questi episodi.
Da quel momento, nella filosofia teatrale dell’Odin, il “baratto culturale” sarà l’obiettivo di qualsiasi rappresentazione fino ai nostri giorni, conseguenza della volontà di “imparare ad imparare”. Nel testo di Santoro, a tale proposito, viene riportata una importante considerazione di Barba: “Ti ricordi quel che successe ad Orgosolo? Quel che allora avvenne per caso possiamo trasformarlo in un programma. Si tratta di pagare uno spettacolo con un’altra manifestazione spettacolare. Niente di gratuito. Ma niente che abbia a che vedere con il denaro. Un baratto”. Certo un baratto, ma come sottolinea Antonello Zanda in un seggio inserito nel libro, “perché ci sia un vero baratto ci deve essere una libertà alla pari da mettere sul tavolo del proprio patrimonio.”
L’Odin tornerà in Sardegna nel 1975. Sarà a San Sperate in aprile e in settembre, intervenendo con una performance “politica” a sostegno degli artisti colpiti da un provvedimento del comune che gli impediva di di dipingere i murales. La compagnia danese inscenerà una particolare processione, a conclusione della quele brucerà un fantoccio,-strega simbolo della repressione. L’Odin, in seguito, si sposterà, con lo spettacolo-baratto Il libro delle danze, a Sarule, Ollolai, Orgosolo, Gavoi, Lodine, Olzai, Ovodda, Gairo, Loculi, Cardedu. Ma l’amore per la realtà sarda di Barba e del suo gruppo possiamo coglierlo anche in un altro particolare. Quando in Puglia, durante la residenza a Carpignano, l’Odin si occuperà anche della vita culturale del paese, organizzando in piazza proiezioni cinematografiche, il primo film scelto, non a caso, sarà Banditi a Orgosolo di Vittorio De Seta.
Tutte le info sul libro (con le date delle presentazioni) si possono trovare qui: https://lnx.vincenzosantoro.it/2017/06/07/odino-nelle-terre-del-rimorso/