Gioconda miseria. Il tarantismo a Taranto. XVI-XX secolo, saggio pubblicato poche settimane fa da Antonio Basile per i tipi della Progedit (in una collana curata da Eugenio Imbriani), si colloca con una sua originalità nella vastissima produzione degli ultimi anni sul tema, presentando diversi motivi di interesse.
Da una parte il libro contiene – come fa intuire il titolo – una efficace e completa ricognizione sui più importanti testi che documentano il tarantismo nella zona di Taranto. Si tratta in parte di scritti già noti, a cui sono aggiunti però documenti poco conosciuti o praticamente inediti, frutto dell’evoluzione negli studi degli ultimi anni, che ripropongono la città ionica – e un suo più o meno vasto circondario – come luogo elettivo e centrale dei rituali connessi al “male pugliese”. Dando anche conto della problematica questione etimologica riguardante i legami fra Taranto e “tarantismo” – “taranta” – “tarantella” ecc.
Questa operazione di “riportare a casa la taranta”, che invece in un’ampia pubblicistica recente e forse nel sentire comune dei nostri tempi viene vista invece come un fenomeno riguardante precipuamente il Salento leccese, viene condotta da Basile in maniera rigorosa e con una scrittura piacevole e sorvegliata, che non lascia peraltro mai spazio a ipotesi di banale rivendicazione localistica (rischio che pure un testo del genere poteva correre).
Dall’altra parte, il volume contiene anche una sintesi del dibattito riguardante le interpretazioni del fenomeno, anche in questo caso aggiornata ai risultati degli studi più recenti. La prima parte del volume può essere dunque quasi vista – ed è un altro suo merito – come una utile (e piacevole) “introduzione” al tarantismo storico, fra le più riuscite fra quelle che mi sia capitato di leggere.
Al di là di questo, dalla lettura di Gioconda miseria si ricavano anche molti utili stimoli per un rilancio della ricerca, in varie direzioni. Ad esempio, mi pare che ci siano almeno due questioni centrali su cui sarebbe interessante approfondire. La prima è quanto la presenza di un “tarantismo senza santi”, o almeno senza San Paolo, metta in discussione l’analisi demartiniana del fenomeno, che vedeva ad esempio proprio nella “colonizzazione” del rito da parte della Chiesa attraverso l’elezione di San Paolo a “patrono” dei tarantolati e la giustapposizione della visita finale alla cappella di Galatina al precedente rituale “pagano” uno dei fattori che hanno gradualmente condotto il fenomeno alla consunzione e alla scomparsa. Gioverebbe molto, per affrontare questo tema, che i dati provenienti della letteratura storica – compiutamente segnalati da Basile, potessero essere integrati da un lavoro organico di ricerca “sul campo” nei territori coinvolti. Da quel poco che ne so, considerato anche che le ultime istanze del tarantismo nei paesi della fascia che va da Taranto ad Ostuni sono documentate fino a pochi decenni fa, penso che potrebbero venire fuori cose molto interessanti.
Inoltre, c’è il tema della musica: la specificità del tarantismo “non salentino” si rifletteva in qualche modo anche sul repertorio musicale usato nella “terapia”, oppure su quello che, pur se usato in altra funzione, conservava una qualche “memoria” del rito? Questo lascerebbero supporre i risultati delle ricerche degli ultimi anni, condotte fra gli altri da Giovanni Amati e da Massimiliano Morabito, che hanno documentato, sempre nella fascia a nord del Salento, un ricco patrimonio di “tarantelle”, una parte delle quali probabilmente una volta usate nella terapia musicale, che presentano somiglianze ma anche importanti diversità dai repertori più meridionali.