di Sergio Torsello, da Nuovo Quotidiano di Puglia, Sabato 23 Novembre 2013
C’è un “sud latente” nei versi italiani di Ingeborg Bachmann, una delle più geniali voci poetiche del ‘900 europeo. Nata in Carinzia nel ’26 e “misteriosamente” scomparsa a soli 47 anni nel 1973, Ingeborg Bachmann visse in Italia, tra Ischia, Napoli e Roma, quasi metà della sua breve esistenza. Ma sino ad oggi pochi avevano sondato così in profondità il suo rapporto, intenso e complesso, con i luoghi del Sud oltre Napoli. Lo ha ricostruito la germanista Camilla Miglio in un saggio denso, raffinato e illuminante, La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann (Quodlibet, pp.174, Euro 22) che assembla frammenti, “rapsodici passaggi” alla ricerca di tracce superstiti della fascinazione della Bachmann per una “terra sismica, popolata di animali pericolosi e fatali – vipere, tarantole – e da voci sotterranee”. L’immagine che ne deriva è quella di un sud distante anni luce dalla tradizione odeporica del Grand Tour, dalla riscoperta del classicismo come progetto utopico, o dal nascente esotismo tanto caro ai viaggiatori che nell’Ottocento si inoltrarono nelle lande sperdute del Mezzogiorno. Bachmann aggira pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni che da secoli descrivono tanto un meridione “idilliaco” quanto, al contrario, un meridione ozioso, sudicio, criminale, un “paradiso abitato da diavoli” per citare il detto quattrocentesco reso celebre da Goethe. E proietta sul Sud il suo sguardo inquieto e tormentato di moderno soggetto europeo: donna e poeta, “prigioniera” del mito di “divina” della poesia tedesca che un precoce successo letterario le aveva cucito addosso, ma anche esponente dell’intellighenzia critica tedesca impegnata a fare i conti con un passato che tarda a passare con il suo fardello di colpe, rimorsi e dolore (era figlia di un fervente militante nazista). Nel 1953, la discesa a sud, per il tramite del compositore Hans Werner Henze (1926-2012), amico/amante che condividerà con Bachmann scelte politiche e sensibilità musicali, sarà per lei “una discesa agli inferi, alla ricerca dell’umano dopo il disastro”. Un viaggio alla scoperta di un luogo ancora attraversato da “scosse mitiche e culturali capaci di risvegliare l’umano, l’autentico distrutto dalla Storia”, scrive Camilla Miglio. Il sud “ctonio” di Bachmann è dunque la via di accesso ad un nuovo modo del “vedere”. “Il corpo degli offerenti nelle processioni, dei tarantati, di chi intona cori, litanie e nenie, di chi batte ritmicamente, magicamente i piedi – sottolinea ancora la Miglio – entra in contatto con dimensioni estatiche. L’origine sta nel sottosuolo, perché viene dal morso di piccoli animali fugaci che nel sottosuolo hanno regno”. Per Miglio i versi di Bachmann sono “analoghi alla sostanza iconica” del Rituale del serpente di Aby Warburg, dove “lo sguardo estatico si apre ad una cognizione dell’autentico altrimenti inaccessibile.” Ne resta testimonianza, accanto ai più noti Canti di un’isola, apparsi nel ’54 e “ambientati” ad Ischia, in una folgorante poesia del 1955, Apulia, nella quale non è difficile cogliere riferimenti a Puglia e Basilicata.
Sotto gli ulivi la luce sgronda semi
il papavero riappare ondeggiando
cogliendo l’olio e poi lento bruciando
e mai si consuma la luce.
In città cave stambura il tamburo
bambini stanno nei trogoli
prede di mosche a nugoli
pane chiaro, labbro scuro.
S’aprisse dai campi, chiaro, il giorno al troglodita
dalle lampade il papavero sfumerebbe
tutta la pena del sonno sfollerebbe
fino a sfarsi del tutto, esaurita.
Trascinerebbe tubi d’acqua l’asino
il vetro e le perle alle pareti
le porte rivestite di suoni
legacci intreccerebbe ogni mano.
Madonne allatterebbero e all’acqua verde
andrebbe il bufalo dal corno fumante
sufficiente ogni dono finalmente:
sangue d’agnello, pesce e uovo di serpe.
Finalmente tutti ruminano pietre, e arse le giare
l’occhio lacrima olio, spalancato
e il papavero s’accascia inebriato
sotto le tarantole è tutto un tramestare
La Miglio accosta il “sentire” della Bachmann a quello di Ernesto de Martino, tante e tali sono le assonanze tra i due punti di vista: immagina addirittura che si sia addentrata nel sud accompagnata dalla lettura delle Note di viaggio di De Martino apparse su “Nuovi argomenti” del 1953. Erano gli anni (tra il 1952 e il 1959) in cui De Martino con le sue inchieste etnografiche nel Mezzogiorno poneva le basi della nascente antropologia italiana. Il sud di De Martino è il sud dello “scandalo intellettuale”, ma anche del tarantismo come “istituto culturale” in risposta alla “crisi della presenza” (concetto ripreso da Heidegger, guarda caso autore caro alla Bachmann che ne farà l’oggetto della sua tesi di laurea), al rischio di perdersi quando l’insorgere del negativo mette in crisi il rapporto razionale tra l’uomo e il mondo. E forse non è del tutto azzardato pensare che per Bachmann il viaggio nella “terra del morso” sia stato animato dalla personale ricerca di una “patria culturale” (altra nozione eminentemente demartiniana), come possibile ancoraggio contro l’onda lunga di traumi collettivi e derive del sè. “L’esperimento meridionale – conclude la Miglio – è stato anche una ricerca di loci – tenenti, luoghi che tengano, contengano, mantengano ancora una voce vera, antica e nuova. Una forma di resistenza dell’umanità in tempi bui, dopo il disastro.”