di Sergio Torsello
da Nuovo Quotidiano di Puglia, 2 aprile 2013
A quasi vent’anni dall’ultima ristampa torna in libreria per le edizioni Squilibri Lettere da una tarantata di Annabella Rossi, uno dei classici della tradizione antropologica italiana. Apparso nel 1970 e ripubblicato nel 1994 (con un fondamentale saggio di Paolo Apolito riproposto nella nuova edizione) il libro raccoglie la corrispondenza intercorsa nei primi anni ’60 tra Annabella Rossi e Anna di Ruffano, una delle tarantate incontrate dall’antropologa nel corso della ricerca del 1959 al seguito di De Martino. “Un esempio italiano ante litteram di antropologia dialogica”, lo definisce Apolito, noto antropologo dell’università di Roma Tre, da tempo acuto osservatore della realtà salentina. “Il valore di quest’opera – spiega Apolito – risiede nel fatto che ha consentito di ampliare la riflessione sul tarantismo, poiché ha permesso di guardare al fenomeno dal punto di vista di una tarantata, entrando per la prima volta nel suo vissuto, integrando così la prospettiva inaugurata dalle splendide analisi di De Martino. Inoltre il saggio di Tullio De Mauro contenuto nel libro divenne subito un punto di riferimento nel dibattito sui linguaggi popolari.
Un libro che rispecchia la complessa figura di Annabella Rossi, protagonista spesso trascurata degli studi antropologici nel dopoguerra.
Annabella Rossi aveva una personalità impetuosa che suscitava grandi antipatie e altrettanto grandi simpatie. Era incapace di adeguarsi alle “liturgie” accademiche e questo ne ha limitato l’influenza in quel mondo. Ma il suo contributo è stato tutt’altro che minore. Accanto a molti importanti libri ha lasciato un vasto lavoro di etnografia museologica al Museo nazionale di Arti e Tradizioni Popolari di Roma (oggi IDEA) e in particolare in Campania una traccia indelebile. All’università di Salerno gli studi di antropologia sono nati con la sua presenza e grazie al felice incontro con Roberto De Simone diede uno stimolo essenziale alla diffusione dell’interesse per la cultura popolare e alla stessa produzione artistica di De Simone negli anni del folk revival.
Nella tua introduzione toccavi temi cruciali della riflessione antropologica contemporanea: la scrittura etnografica, il ruolo delle relazioni umane che si stabiliscono sul campo. Cosa resta valido ancora oggi?
Quell’introduzione nasce nel pieno del dibattito postmodernista in antropologia che valorizzava gli aspetti di revisione critica dello statuto della disciplina. Dibattito necessario, dopo una lunga stagione in cui prevalse l’idea di “certezza” dei dati sul campo e di “oggettività” dei risultati antropologici che oscurava la soggettività dell’antropologo. Oggi quel dibattito può dirsi superato. L’antropologia ha riflettuto su se stessa ed è stato un bene, ma ora deve rispondere alle sfide contemporanee che sembrano consegnarla all’anacronismo, mettendo in discussione la legittimità del suo sapere.
In che senso?
L’antropologia studia il mondo contemporaneo, ma con un approccio lento, riflessivo, mentre oggi sembra che la conoscenza sia dentro un meccanismo veloce e sintetico, alla maniera di titoli di giornali, lanci di agenzie, pulviscolo informatico di facebook. La domanda è: serve questo approccio ai problemi del presente? Ovviamente gli antropologi ritengono di sì, ma non è questo il punto. Una scienza sociale deve avere un riconoscimento sociale. Altrimenti è come la mirmecologia, la scienza che studia le formiche e non chiede a queste dialogo, ricezione, legittimazione. Credo che oggi l’antropologia debba affrontare questi problemi, evitando i paludamenti accademici e il compiacimento autoreferenziale. Occorre che torni a partecipare al dibattito pubblico.
Lei è stato uno dei primi ad occuparsi del revival salentino. Come vede l’evoluzione del fenomeno?
Durerà e muterà. Durerà poiché in una certa misura si è organizzato come istituzione socioculturale. Muterà poiché la complessità dei fili che lo alimentano e anche una certa ambiguità costitutiva saranno motori di trasformazione dagli esiti per certi versi imprevedibili.
Il tarantismo continua ad essere al centro di una prodigiosa fioritura saggistica. Cosa c’è ancora da scoprire sull’argomento?
Il tarantismo è un tema “buono da pensare”, per usare una felice espressione di Lévi-Strauss. E i suoi esiti revivalistici sono buoni da vivere, come è provato dalle decine di migliaia di persone che accorrono al richiamo della Notte della Taranta. Nessun oggetto scientifico è mai esaurito dal punto di vista della sua conoscenza. Ciò che sarà significativo a mio parere è porsi domande nuove e “giuste”, dal punto di vista di ciò che dicevo prima, a proposito dell’attuale crisi dell’antropologia.
E la contadina scrisse alla studiosa.
Lettere da una tarantata fu pubblicato nel 1970 dalle Edizioni De Donato di Bari con una nota di Tullio De Mauro. Straordinario documento demolinguistico, il libro raccoglie 65 lettere che la tarantata Anna di Ruffano, al secolo Michela Margiotta, contadina semianalfabeta, nata a Ruffano nel 1898, inviò tra il 1959 e il 1965 all’antropologa Annabella Rossi. Si erano incontrate nella cappella di San Paolo a Galatina nel 1959, durante l’inchiesta di De Martino sul tarantismo alla quale Rossi partecipò come intervistatrice. Anna è afflitta contemporaneamente da tarantismo e da “male di San Donato”, i due “mali culturali del Salento” come scrive la stessa Rossi. Con le sue lettere ingenue e sgrammaticate, che tradiscono l’innamoramento per l’antropologa, Anna apre un significativo spiraglio di luce sull’”ideologia popolare della taranta” ma anche sulle reali condizioni di vita delle classi subalterne del Sud nel secondo dopoguerra. Nel 1994, in pieno clima di revival del tarantismo, il libro era stato ristampato dalle edizioni Argo di Lecce con un denso saggio introduttivo di Paolo Apolito incentrato sulle dinamiche interazionali che si instaurano sul campo tra l’antropologo e i suoi interlocutori. La nuova edizione per i tipi della raffinata casa editrice romana Squilibri di Mimmo Ferraro (pp.192, euro 19) sarà in libreria fra poche settimane.
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