Uno straordinario affresco di San Paolo
di Sergio Torsello
da “PaeseNostro”, n.73, Ottobre 2009
Egregio direttore,
ho letto con estremo interesse l’accorato appello della signora Maria Luisa Sangiovanni, proprietaria della chiesa di S. Maria di Vereto, raccolto da Antonio De Marco e pubblicato sul numero del 6 Marzo 2009 del giornale da Lei diretto. Da quasi quindici anni frequento per motivi di studio la chiesetta di Vereto e ho particolarmente a cuore le sorti di questo importante monumento salentino. Non tutti sanno infatti che l’edificio conserva al suo interno uno straordinario affresco raffigurante San Paolo. Si tratta di una delle rappresentazioni più antiche e originali tra quelle comprese nel vasto corpus (affreschi, statue, dipinti, edicole votive) dell’iconografia paolina attestata nel Salento. Inserito in un più ampio ciclo agiografico, venuto alla luce in un incasso murario durante lavori di restauro effettuati nel 1954 su iniziativa dell’allora parroco di Patù don Vincenzo Rosafio (si veda V. Rosafio, Vereto, antica città messapica del Basso salento, Lecce, 1968) l’affresco, in buona parte non più leggibile, raffigura San Paolo in una posa solenne e minacciosa con il classico attributo della spada attorno alla quale sono attorcigliati due serpenti. Ai piedi del santo, poi, è raffigurato un piccolo bestiario de venenis: un serpente, uno scorpione e, poco più in alto, due serpenti intrecciati a caduceo. L’affresco, di non pregevole fattura (e di probabile datazione tardocinquecentesca) si presenta come un unicum nel suo genere per la ricchezza delle metafore simboliche che sembrerebbero indirizzarsi verso una continua commistione di citazioni culte e riferimenti all’immaginario popolare. Nulla sappiamo, allo stato attuale delle ricerche, delle figure dei committenti dell’affresco (e neppure dell’anonimo frescante) che consentirebbero di capire meglio il milieu intellettual – artistico all’interno del quale prese corpo siffatta raffigurazione. Sappiamo solo che alcuni labili indizi (le successioni feudali che , a partire dal XVI sec. danno Vereto infeudata alle famiglie titolari della contea di Alessano) potrebbero stabilire molto più di una semplice continuità della “devozione paolina” da parte di alcuni proprietari dell’edificio di culto. Proprio ad Alessano del resto il culto del “divin apostolo” conosce le sue attestazioni più antiche, addirittura a partire dal XIII secolo. E’ in questo periodo infatti che i Registri della Cancelleria Angioina segnalano una chiesa di San Paolo ad Alessano. Successivamente la chiesa fu incorporata nelle mura del palazzo baronale (edificato nel XV sec.) e nel 1628 l’abate alessanese Fabio Guarini, interrogato dal vescovo Andrea Perbenedetti, “dichiarava di avere la titolarità di quattro benefici, uno sotto il titolo di S. Caterina nella cappella del Castello di Alessano […] l’altro nella istessa chiesa sotto il titolo di San Paolo et S. Maria de Verito” (cfr.: Luoghi, chiese, chierici nel Salento meridionale in età moderna. La visita apostolica della città e della diocesi di Alessano nel 1628, a cura di Andrè Jacob e Antonio Caloro, Galatina, Congedo, 1998, pag. 147). Le sorti delle due chiese appaiono dunque sempre più strettamente legate nel corso dei secoli. Le origini della chiesa di Vereto, infatti, sembrerebbero fare riferimento ad un “casale altomedievale (la cui esistenza è testimoniata da rinvenimenti archeogici bizantini)”. Nei secoli successivi fu prima “abbandonata, forse semidistrutta, quindi rimaneggiata, restaurata e ridotta a semplice cappella di giuspatronato dei Baroni di Vereto: Capece, Romasi, Ayerbo d’Aragona, Riario Sforza Zunica e in ultimo i Sangiovanni di Alessano” (si veda Itinerario storico–archeologico tra Giuliano e Patù, Mb Editore, 2002, notizie storiche a cura di Antonio Ferraro). Non mi soffermerò oltre sulle molteplici questioni di ordine storico, antropologico e sulle complesse piste interpretative aperte da siffatte testimonianze. Mi limiterò qui ad alcune brevi considerazioni che spero riescano a farne capire l’enorme importanza. C’è un elemento, infatti, che nell’affresco sembra essere rimarcato con notevole intensità simbolica: il rimando al patronato antiofidico di San Paolo il cui mito di fondazione è contenuto in un passo degli Atti degli Apostoli (28, 1–6) tra i più citati e commentati dalla letteratura interessata ad indagare le dinamiche storiche del sincretismo tra il culto di San Paolo e il fenomeno magico-religioso del tarantismo. (E’ opportuno precisare che la sola presenza di un affresco non implica necessariamente una qualche connessione con fenomeni di tarantismo. Anzi, in questo caso specifico, l’assenza di ogni rappresentazione della tarantola indurrebbe ad indirizzare altrove le prospettive di ricerca. Tuttavia l’affresco veretino risulta particolarmente significativo ai fini di una ricostruzione della storia del culto paolino in ambito salentino). L’episodio narrato negli Atti degli Apostoli è quello di San Paolo che, in viaggio verso Roma, approda a Malta in seguito ad un naufragio e dimostra di signoreggiare un’echidna (un serpente velenoso) che lo morde ad una mano mentre si accinge ad accendere un fuoco senza arrecargli alcun danno. Come osserva Brizio Montinaro, questo episodio biblico ha dato vita ad un vero e proprio “mitologema che si è venuto a creare a causa di una serie di notizie diffuse a livello egemone e i cui echi soltanto sono giunti confusi a livello popolare stimolandone le capacità mitizzanti” (B. Montinaro, San Paolo dei serpenti, Sellerio, 1996). Da questo passo degli Atti, infatti, deriva tutto il complesso corollario di tradizioni popolari legate alla protezione accordata da San Paolo contro il morso di animali velenosi: dalla terapeutica popolare (affidata ai discendenti della Casa di San Paolo, i cosiddetti “sanpaolari”, depositari di tecniche magico–protettive e incantatorie contro gli animali velenosi), alla creazione di “aree di immunità” dal morso di rettili velenosi in virtù della protezione accordata dal santo (celebri quelle di Galatina e Malta), fino all’utilizzo della figura di San Paolo come elemento chiave di quel processo di “riplasmazione cattolica” di culti di chiara derivazione pagana come il tarantismo. Ma è lo stesso Montinaro a ricordare come tuttavia una “ricchissima iconografia che rappresenta il santo con la vipera cadente dalla mano o tra le fiamme tende a mettere in evidenza la vittoria dell’Apostolo sul demonio”. Nella tradizione biblica infatti il serpente è simbolo delle potenze abissali, “l’incarnazione di Satana che il Dio della pace stritolerà sotto i piedi dei discepoli (Rm, 16, 20)”. E ai suoi discepoli il Signore ha dato il potere di “camminare sopra i serpenti e gli scorpioni (Lc, 10, 19)” ( cfr. Manfred Lurker, Dizionario dei simboli e delle immagini bibliche, Mondatori, 1994, pag. 190). Basti ricordare, per restare ad un ambito strettamente locale, che un’altra raffigurazione (questa volta di San Pietro e Paolo) a Ruggiano (Salve), venuta alla luce recentemente durante lavori di restauro della chiesetta dedicata a Santa Marina e databile al 1645, faccia riferimento da un lato alla potenza della Chiesa fondata dagli Apostoli, ma al tempo stesso ricordi anche, in maniera abbastanza esplicita, l’episodio maltese della vipera. Anche nella cappella gentilizia del castello di Morciano di Leuca è conservato un affresco monocromo di San Paolo (databile al XVII secolo) che raffigura il santo con gli attributi classici del libro e della spada attorno alla quale è avvinghiato un serpente. Nel caso veretino però, il riferimento all’episodio maltese è segnato da un dispiegamento simbolico che non ha riscontri nell’area salentina e potrebbe in parte spiegarsi con la caratteristiche stesse del contesto devozionale che è quello di una piccola chiesa di campagna (ubicata lungo le direttrici del pellegrinaggio mariano a finibus terrae) dove l’oggettiva presenza di serpenti e altri animali velenosi doveva costituire un problema non irrilevante per la vita delle popolazioni locali. Un aspetto questo volutamente sottolineato dall’autore, probabilmente con il placet del committente. Vistoso elemento di discontinuità in tutta la raffigurazione resta tuttavia la presenza dei serpenti intrecciati a caduceo (sulla complessa e mutevole rete di significati che si è addensata su questo simbolo sin dalla tarda antichità non è possibile soffermarsi in questa sede) e, soprattutto, il suo significato in tale contesto (una “firma”? oppure un “geroglifico della fede” che ancora sfugge alla nostra comprensione?). Domande forse destinate a rimanere senza risposta ma che tuttavia sottolineano l’importanza che tale testimonianza riveste nel quadro di una indagine organica sull’iconografia paolina nell’area salentina che consenta di capire meglio non solo le dinamiche di circolazione, ma anche gli articolati vettori di diffusione e i molteplici aspetti delle rielaborazioni in chiave dotta e popolare del mitologema del patronato antiofidico di San Paolo. Allo stato attuale l’affresco risulta gravemente danneggiato e versa da tempo in uno stato di degrado che si fa sempre più irreversibile. Alcune parti sono ormai scarsamente leggibili, per cui si rende necessario un urgente intervento conservativo che consenta di restituire alla comunità degli studiosi una delle testimonianze più importanti dell’iconografia paolina nell’area meridionale. Come rappresentante dell’Istituto Diego Carpitella propongo di riunire attorno ad un tavolo la proprietà dell’edificio, le associazioni che da anni sono impegnate nella tutela e valorizzazione del sito di Vereto, le istituzioni locale (Comune, Provincia e Regione), quelle culturali (Università del Salento, Sovrintendenza ai Beni Culturali) e religiose (Diocesi di Ugento), per mettere a punto un progetto di restauro dell’affresco e la creazione di un gruppo interdisciplinare di studio. Sarebbe anche un bel modo da parte delle istituzioni locali per celebrare, sia pur con ritardo, la ricorrenza dei duemila anni dalla nascita dell’”Apostolo delle genti”
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