da www.gazzettapolitica.it – di Selene Pascarella
La memoria personale e quella collettiva costituiscono per la storiografia tradizionale materiale a latere, per riempire i vuoti emozionali della ricostruzione dei grandi eventi, per fornire lingua e sapore agli affreschi d’epoca. Nei manuali scolastici, i documenti che ne derivano si possono ritrovare in appendice, senza alcuna pretesa dimostrativa o dignità di fonte. La storia orale ne fa invece il suo strumento, le usa senza parsimonia, montandole e sovrapponendole, sfruttando discrepanze e contraddizioni per storicizzare un evento personale e di gruppo.
Il racconto e il ricordo non sono estranei alla storia, sono un percorso nella storia. Quando Sandro Portelli scrive che la storia orale compie una operazione, violenta a volte, “sulla natura del materiale per offrirgli un nuovo grado di rilevanza”, si pone su questo percorso.
Percorso che rintraccia nel volume Tabacco e tabacchine nella memoria storica. Una ricerca di storia orale a Tricase e nel Salento di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello (Manni Editore, pp. 168), di cui cura l’introduzione, “una rappresentazione – così la definisce – della storia e del rapporto con essa di ciascuna persona, in cui la memoria non entra come deposito inerte di dati ma come lavoro costante di interpretazione, in cui operano attivamente i filtri dell’immaginazione, del sentimento, del desiderio, del linguaggio”.
Ricordo e montaggio storico
Un saggio storico, quello di Santoro e Torsello, che fa proprio un approccio da documentario cinetelevisivo: racconti e interviste non semplicemente riportate – in nome dei una presunta eziologia del ricordo – ma scomposte in maniera tematica e quindi raggruppate, con un intervento di montaggio narrativo. Tre macroeventi che incorniciano l’episodio della protesta delle tabacchine (la coltivazione del tabacco “levantino” nel Salento, la storia del consorzio Acait di Tricase, la rivolta, i morti e il trauma del carcere) prendono vita dalle testimonianze orali dirette e indirette. Dai frames della memoria del singolo scaturisce una sequenza di memoria collettiva. Dalle catene sintagmatiche dei ricordi riemerge una striscia di memoria sociale. Gli autori ricostruiscono un evento capitale nella storia del piccolo centro salentino – la repressione sanguinosa (cinque vittime, numerosi feriti, arresti di massa) della “rivoluzione” delle lavoratrici del tabacco che protestavano contro la chiusura del Consorzio Agrario ad opera del governo fascista – e conferiscono a quanto accaduto un senso generale.
La vicenda drammatica delle tabacchine di Tricase parla, o non può fare a meno di parlare, dei cambiamenti che l’importazione delle colture del tabacco ha prodotto sull’economia rurale del Salento, sulle immigrazioni interne, sulla divisione del lavoro – di quello femminile in particolare – sulla povertà di mezzi e di speranze della popolazione del meridione, sulla sua voglia di riscatto che in quel momento fatalmente si scontrava con il regime fascista.
Nella piazza del paese si levano voci contro il Podestà, ma si invoca anche il Duce, come il capo distante e buono, che non sa – ma se sapesse! – della miseria, della fame, dello sfruttamento. A Tricase c’è la rivolta del mondo contadino che non ha altro nemico precisato se non la fame.
Le tabacchine non sono consapevolmente in strada contro il fascismo, il fascismo, che rifiuta a priori qualsiasi forma libera e autorganizzata di espressione, prima che di ribellione, è sicuramente contro di loro. A Tricase non si reprime una rivolta antifascista, ma una rivolta tout court, non si ferisce solo la popolazione, ma la sua memoria storica, cui si tolgono il ricordo e la parola.
Un detto del luogo, che rappresenta una forma appena più sedimentata di fonte orale, recita tra il rivendicativo e il rassegnato: “a Tricase dal trentacinque non si canta più”. Ne emergono allo stesso tempo una sconfitta generazionale – e di classe forse – e il segno di una resa invincibile del vecchio mondo rurale levantino, ma soprattutto la scomparsa di una modalità di trasmissione della ribellione e della memoria, quella della voce. Si suona ancora la pizzica, sono ancora qui i ritmi indiavolati delle tarante, ma i canti polifonici, del lavoro e della protesta, non si odono più.
Vedere voci: la lingua della memoria
La seconda caratteristica propriamente audiovisiva di questo saggio sta nell’uso della lingua con effetto musicale, quasi di colonna sonora, dove il suono del racconto è senza dubbio una modalità narrativa che determina il senso della storia. “Il fatto che gran parte dei racconti di questo libro siano belli – scrive Portelli nell’introduzione – non è un orpello ornamentale; è la sostanza stessa del loro significato”.
Una bellezza che passa nelle modulazioni del dialetto del luogo, che è quello dei racconti personali, dei testimoni e dei protagonisti, ma anche dei racconti riportati, tramandati ai figli; nella vivacità della langue sopravvive la memoria come pratica orientata all’oggi, testimonianza non dell’uomo folklorico bensì di quello storico.
“Se dicia ca la chiazza era china de sangu e de proiettili, e li spazzini toccò cu bannu cu l’autobotte cu la pulizzene. Non se putìa cuntare, percé non c’era pietà, te purtavene subitu in galera”.
Non si poteva parlare dei morti del Consorzio del tabacco, come non si poteva parlare negli interminabili turni in fabbrica; nella parola la memoria, nella memoria il senso della propria storia nella storia più generale. Non avrebbero più cantato le tabacchine, private del significato e del contenuto del loro cantare, in ammonimento alle più giovani e inesperte, alle orecchie dei kapò e dei direttori di fabbrica, ai figli chinati insieme a loro sulle piante e sui i telai.
“Oh mamma ce su brutte le galere/ ci le vide spaventu ni rrimane / de fore nturnisciate de bandiere / de intra c’è l’inferno naturale”: Tabacco e Tabacchine si chiude con un’appendice sulla tradizione musicale che non è scindibile con il ricordo di quel mondo e di quei morti. Le voci sono le stesse, la lingua è la stessa, comune la memoria che tutte le racchiude.