di Vincenzo Santoro, da AA VV, Tarantismo e neotarantismo, Besa editore, Nardò (Lecce), 2001
Il contributo che propongo al convegno prende spunto dalla mia esperienza personale. Io non sono uno studioso, ma solo un modesto “animatore culturale”, che ha cercato di lavorare nel vivo di questa sorta di “movimento” (consentitemi per semplificare di utilizzare questa espressione), prima con l’esperienza di consigliere delegato alla cultura del mio comune (Alessano, provincia di Lecce) e in seguito anche con l’organizzazione di altre iniziative fuori dalla Puglia. Le mie riflessioni nascono dunque da un’osservazione del movimento dall’interno, con tutti i limiti che questo comporta.
Per cominciare, mi sento di condividere sostanzialmente quello che diceva il Prof. Lapassade nell’ultima parte del suo intervento, quando elencava quelli che possono essere considerati degli “antecendenti” del movimento attuale, e cioè i gruppi di “riproposta” della musica popolare che negli anni ’70 nascono anche nel Salento, sulla scia di altre simili esperienze, che erano però caratterizzate dall’avere un approccio fortemente politicizzato, quindi sostanzialmente diverso dall’attuale. Il più importante e famoso di questi gruppi era il Canzoniere Grecanico Salentino, che esiste ancora oggi, anche se con una formazione completamente diversa. Anche quando l’esperienza del primo Canzoniere volse alla fine, alcuni suoi componenti continuarono a lavorare sulla musica e sulla cultura di tradizione orale, costituendo le basi da cui poi partiranno gli sviluppi successivi. Emblematico in questo senso è l’esperienza di Gigi Chiriatti, che proprio in quegli anni batté in lungo e in largo col suo registratore le campagne e i paesi del Salento, componendo così la sua preziosissima raccolta di registrazioni di cunti, canti, favole e altre testimonianze fondamentali.
A questa importante prima fase, segue un periodo di buio assoluto, ricordato da chi c’era come un momento quasi di rimozione collettiva, di rifiuto di tutto ciò che aveva a che fare con il passato, con la tradizione musicale. In seguito, proprio alla fine dei “terribili anni ottanta”, nel Salento ricominciano a suonare i tamburelli, si formano sempre più gruppi musicali, e intorno alla pizzica e alla musica “popolare” si costituisce un vero e proprio movimento, in un crescendo dei cui esiti stiamo discutendo oggi.
Infine, negli ultimi anni il movimento è uscito dai confini del Salento: a Roma c’è ormai un concerto la settimana, io stesso ho organizzato in diverse parti d’Italia numerosi concerti e frequentatissimi corsi per imparare a ballare la pizzica. E mi sembra importante considerare quello che fa Anna Nacci con “Tarantula rubra”, il fatto che una radio dedichi, a Roma, una trasmissione settimanale alla musica popolare. Addirittura comincia a prospettarsi anche un successo a livello internazionale, specialmente a partire da “Sangue vivo”, il secondo film di Edoardo Winspeare, che vuole rappresentare il Salento di oggi con le sue contraddizioni, in cui c’è la criminalità e la violenza ma anche la vitalità della pizzica. A testimonianza di ciò, sul recente numero invernale del prestigioso “Time Magazine”, c’è un articolo intitolato significativamente “Speaking in tongues”, che afferma che il cinema più interessante e innovativo che si sia prodotto in Italia negli ultimi tempi è quello che ritorna a porsi il problema delle “radici”, mediante l’uso del dialetto ma anche con un forte legame con un territorio (si fa riferimento anche al barese “Lacapagira” di Alessandro Piva) e, nel caso del film di Winspeare, con la tradizione musicale.
A questo punto si pongono quelle che a mio avviso sono le questioni fondamentali per la comprensione del fenomeno. Perché la pizzica ritorna proprio in quel momento (abbiamo detto tra la fine degli ottanta e l’inizio dei novanta)? Quali sono le “cause” del suo ritorno? Quali sono gli elementi di continuità con il passato, e quali le novità?
Non sono sicuramente io a poter rispondere compiutamente a questi interrogativi. Per farlo occorrerebbe un lavoro complesso di studio e di riflessione, che ancora non è stato nemmeno tentato. Paradossalmente – ma forse solo in apparenza – sono state spese molte più pagine per commentare e confutare l’interpretazione del tarantismo data da Ernesto de Martino, piuttosto che per capire la natura di quello che sta succedendo negli ultimi dieci anni. E anche questo convegno, che forse aveva ambizioni diverse, mi sembra si stia muovendo nella stessa direzione. Sembra che interessi più il Salento del 1959 che il Salento del 2001. Per quanto mi riguarda, cercherò in questa sede di delineare alcuni disorganici spunti di riflessione, che come ho già detto derivano soprattutto da un’esperienza di vicinanza al movimento e dalle infinite discussioni fatte sull’argomento.
Per la fase iniziale mi sembra che si possano trovare alcuni elementi forti che hanno costituito, se non dei punti di partenza, almeno dei fattori di accelerazione.
Un primo sicuramente è stato lo svilupparsi, proprio alla fine degli anni ottanta, dell’Hip-Hop salentino intorno alla posse dei Sud Sound System. Per la prima volta, un gruppo che fa musica molto moderna – e di successo nazionale, almeno in un certo tipo di cultura giovanile – canta in dialetto, e quindi in qualche modo si pone (e pone) un problema di uso attualizzato del repertorio tradizionale, se non altro nel campo linguistico. In un ambito giovanile neanche tanto ristretto, il Salento comincia a venire rappresentato come un luogo “mitico” di bellezza incontaminata, divertimento e libertinaggio (la “Giamaica italiana”).
In secondo luogo, l’elemento della continuità. In qualche modo, il terreno era già fertile: alcuni anziani musicisti (in particolare Luigi Stifani e gli “Ucci”) e una buona parte dei protagonisti del movimento degli anni settanta (mi riferisco a personaggi come Gigi Chiriatti, Giorgio Di Lecce, Daniele Durante, Roberto Licci, solo per citarne alcuni) non avevano in realtà mai smesso del tutto di suonare e di operare. A partire dall’incontro tra loro e i musicisti più giovani che si riavvicinano alla tradizione (cosa che avviene spesso in occasioni rituali, come l’antica festa di San Rocco a Torrepaduli), si cominciano a formare i primi gruppi. In questo modo, la nuova sensibilità si compone a partire da una mescolanza tra una parte dell’esperienza degli anni settanta e il “respiro lungo” della tradizione musicale salentina. Da questo punto di vista, un’enorme importanza ha avuto “Pizzicata”, il primo lungometraggio di Edoardo Winspeare, e non solo come prodotto cinematografico, ma soprattutto, nella fase di ideazione e di realizzazione, come cantiere aperto, in cui tanti giovani e meno giovani pizzicati si sono ritrovati insieme con gli anziani depositari della tradizione, in un film che si poneva proprio l’obiettivo di rappresentare un Salento contadino magico e sensuale, ancora non contaminato dalla “modernità”. Da allora, “Pizzicata” è diventato il seducente manifesto del movimento, nonché una sorta di singolare “Bignami” della musica e della danza della pizzica supposta “autentica”, come se invece che di un film si trattasse di un documentario.
Con l’esplosione del movimento, le manifestazioni non sono ormai soltanto quelle “tradizionali”, ma anche nuovi eventi creati da amministrazioni sempre più disposte ad investire. Il più importante di questi appuntamenti ideati dalle istituzioni è sicuramente “La Notte della Taranta”, che nasce nel 1997 per iniziativa di un consorzio di comuni, e continua con cadenza annuale, ma l’elenco potrebbe essere molto lungo. Un’altra questione di un certo rilievo, cui faceva riferimento il prof. Lapassade, è proprio questa: come le istituzioni reagiscono a questo movimento, che nasce in ambito extra-istituzionale – ma che adesso non lo è più tanto? E come l’intervento delle amministrazioni pubbliche – con le dinamiche di potere correlate – ne muta i caratteri?
Vorrei ora, avviandomi alla conclusione, fare alcune considerazioni critiche più generali sul convegno di oggi, e, in particolare, vorrei esprimere le mie forti perplessità sulla tesi di fondo che qui viene proposta, e cioè che si possa spiegare la crescita del movimento della pizzica con la ricerca di “stati modificati di coscienza”, in esplicito collegamento con la “transe” del “tarantismo” ma anche con il fenomeno metropolitano dei “rave”.
Nel Salento i concerti e le feste non sono frequentati solo da giovani, ma anzi, uno degli aspetti più interessanti del movimento è proprio l’estrema eterogeneità dei praticanti: sicuramente i giovani, ma anche i vecchietti, le mamme con i bambini (che spesso dimostrano una straordinaria perizia nel ballo e nella tecnica del tamburello), insomma le famiglie al completo. La gente cerca il divertimento, la socializzazione, la musica e il ballo, e certo non la “transe”. Da questo punto di vista – lo dico non in maniera polemica, ma costruttiva – anche solo parlare di “tarantismo e neotarantismo” è improprio, e costituisce una disinvolta riduzione della questione al solo aspetto “coreutico-musicale”, mentre il movimento si presenta come un fenomeno ben più complesso e denso di implicazioni, e peraltro correlato a fenomeni simili che si stanno sviluppando in altre zone del sud d’Italia – penso ad esempio al Gargano o alla zona intorno a Napoli con le “tammurriate”. Come ci confermano in qualche modo anche i dati presentati da Anna Nacci, ci troviamo di fronte all’espressione di un bisogno di socialità, alla riscoperta di un modo particolare di “stare insieme” e del valore comunitario della festa, della musica e della danza, a bisogni che evidentemente non trovano soddisfazione nei modelli culturali dominanti, veicolati dai mass-media, ma creano qualcosa di nuovo, costituito da elementi della “tradizione” (come la musica) che si intrecciano inestricabilmente con cose molto “moderne” (pensiamo ad esempio alla sterminata produzione di cd, determinante per il diffondersi della musica, ma anche all’uso sistematico dell’amplificazione, che rende le esibizioni odierne molto diverse dalle feste tradizionali).
Diventa chiaro ora perché ho intitolato il mio intervento “il ritmo meridiano”. In questo fenomeno mi sembra che si possa vedere un caso emblematico, quasi una verifica empirica, della tesi esposte da Franco Cassano ne “Il pensiero meridiano”, e cioè che la “globalizzazione” da una parte produce un effetto di omologazione culturale e di distruzione sistematica della diversità, ma dall’altra nelle sue pieghe alcuni fenomeni “locali” – e quindi anche culture che avevano la loro base tradizionale – vengono enfatizzati e rivitalizzati. Mi sembra che nel Salento stia avvenendo proprio un processo di questo tipo. Siamo cioè di fronte a un fenomeno proprio della “modernità”, e non a un prodotto della nostalgia dei bei tempi andati, né a un “mito” quasi esoterico, come potrebbe sembrare da letture superficiali. La pizzica – con il suo contesto culturale – si configura come un vero e proprio “marcatore d’identità”. E non stiamo parlando dell’identità leghista-padana, chiusa e intollerante, ma di un’identità ibrida, aperta, accogliente, che vuole misurarsi anche con l’altro. In questo senso, a mio avviso, non è casuale che il movimento cominci più o meno quando cominciano gli sbarchi dei “clandestini”, quando il Salento, dopo essere stato per decenni l’estrema periferia dell’Italia, ritorna ad essere il centro del Mediterraneo, con tutto ciò che questo comporta, a partire dalla necessità di una riflessione su se stessi e quindi sulla propria cultura. Questa è, a mio avviso, un’altra connessione su cui sarebbe necessario indagare ulteriormente.
Ritengo infine – perdonatemi la “deformazione professionale” – che questo movimento abbia anche una grande importanza politica, non solo per gli aspetti ludici (suonare e ballare è bello e divertente) e commerciali (la pizzica è un formidabile veicolo di promozione turistica), ma anche perché qui viene espressa una forma di resistenza attiva all’appiattimento culturale e al pensiero dominante che ha già di per sé un rilevante valore politico. Inoltre le sensibilità che vengono espresse possono costituire la base per un progetto di sviluppo del Salento (ma anche del Mezzogiorno più in generale) che, partendo dal “ri-guardare i luoghi”, nel senso di tornare a guardarli (e a rispettarli) e di riconoscere il nostro debito nei loro confronti (siamo sempre a Cassano), non sia subalterno alle solite logiche destinate a riprodurre vecchie e nuove subalternità.