da il Quotidiano di Lecce – di Eugenio Imbriani
Dico subito che giudico Il ritmo meridiano. La pizzica e le identità danzanti del Salento (scritto a più mani, a cura di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello, Edizioni Aramirè, Lecce, 2002) un libro importante, onesto, addirittura sfacciato, come cercherò di spiegare tra poco; aggiungo anche che, onestamente, prima di aprirlo non ero animato da uno spirito così benevolo nei suoi confronti: non sono un “meridianista”, ed è innegabile che dal titolo alla quarta di copertina il volume si dichiari piuttosto esplicitamente ispirato al pensiero meridiano di Franco Cassano (la presenza di un suo saggio ne costituirebbe una ulteriore conferma); e tuttavia le cose non stanno precisamente così, come lascia intendere l’elenco degli autori: a parte quelli già citati, Maurizio Merico, Giovanni Pizza, Alessandro Portelli, Luigi Piccioni, Roberto Raheli, Giuseppe M. Gala, Clara Gallini, Edoardo Winspeare, Sergio Blasi: uno stuolo autorevole quanto poco omogeneo. In effetti, il libro registra posizioni diverse, schiettamente espresse, per cui le contrapposizioni non dormono su mediazioni o composizioni, a tutto vantaggio del lettore.
L’oggetto comune della riflessione è quello che accade ormai da alcuni anni nel Salento, l’esplosione dell’interesse soprattutto giovanile per la musica popolare, in particolare per la pìzzica, il fiorire di pubblicazioni, convegni, manifestazioni varie sul tarantismo, assurto ad emblema della cultura tradizionale locale, la crescita esponenziale dei gruppi musicali folk (numerosi dei quali dalla storia breve, almeno finora) che si esibisce durante l’estate, il modo in cui tutto ciò concorra a stimolare in molti il senso dell’appartenenza, di una identità culturale, avvertito con forza. Ebbene, il messaggio univoco che emerge dal libro è, più o meno, questo: il fenomeno in atto da un decennio in qua ha poco di spontaneo, e ancor meno di ancestrale o atavico, ma è risultato di una costruzione, e il sostegno che ne ha seguito lo sviluppo è frutto di una precisa politica culturale che gli operatori più attenti e preparati hanno con determinazione e lucidità perseguito avendo come riferimento, appunto, il pensiero meridiano; più volte, nel libro, ricorre una curiosa espressione che definisce la famosa opera di Cassano alla stregua di “un manuale per gli assessori”.
Due esempi luminosi mi aiuteranno a illustrare questa strategia; il primo riguarda Edoardo Winspeare, il regista diventato famoso per Pizzicata e per Sangue vivo; egli considera se stesso il prodotto di un miscuglio di nazionalità e di lingue, perché ha legami familiari ramificati in mezza Europa che durano da almeno tre secoli; nel palazzo di Depressa ha trascorso parte della sua infanzia, con lunghi intervalli passati tra Napoli e l’Austria; a un certo punto, dice, “ho deciso che ero di qua”, e da allora elabora una identità relazionata con il territorio: studia la tradizione culturale salentina, incontra coloro che saranno gli amici e collaboratori più amati, Lamberto Probo, Pino Zimba, Donatello Pisanello, e con loro dà vita a uno spettacolare esperimento: ridare vita alla pìzzica, fare in modo che diventi per il Salento quel che è il tango per gli argentini e il flamenco per gli spagnoli; organizzano centinaia di feste in pochi anni, in varie località, coinvolgendo suonatori e cantori. Gli interessa solo la pìzzica, non gli altri canti, perché è coinvolgente, fa gruppo, spinge la gente a muoversi e a ballare, vuole un ritmo ribollente, scatenato, senza cura per gli aspetti storici e filologici; la danza stessa conserva ben poco delle eleganti e complicate evoluzioni delle coppie di danzatori anziani, del tutto trascurate. “Con questa scelta”, aggiunge Winspeare, “abbiamo fatto un gesto politico, perché volevamo cambiare l’idea della nostra terra che avevamo avuto fino ad allora” (p. 172): più chiaro di così.
Veniamo al secondo esempio, e cioè a Sergio Blasi, il sindaco di Melpignano, promotore di importanti manifestazioni, con cui, oltre ad essergli amico, ho collaborato nell’Istituto Carpitella, per intenderci l’istituzione che, con la direzione di Maurizio Agamennone e di Gianfranco Salvatore ha, tra l’altro, inventato la famosa “Notte della taranta”. Blasi spiega con molta chiarezza che il suo interesse per la pìzzica è derivato dalla necessità di “comprendere come un’amministrazione comunale potesse sviluppare un interesse organico sul tema della tradizione, dal punto di vista della politica culturale” (p. 181). La pìzzica, sull’onda dell’interesse suscitato dalla world music, è venuta a costituire l’elemento più adatto per questo tipo di operazione, corredato, per giunta, della simbologia del tarantismo, il cui fascino rimane anche a dispetto della confezione da prodotto tipico che ormai anche ad esso è riservata.
Ho riferito solo due casi esemplari che però testimoniano come il coincidere dei progetti e l’intrecciarsi delle volontà e degli interventi (questi esposti ed altri, ovviamente), in un contesto che evidentemente ha maturato determinati bisogni, siano potuti risultare decisamente efficaci.
Il ritmo meridiano, inteso come pìzzica, è una evidente mistificazione, ma non c’è scandalo in questo, purché si chiamino le cose per quello che sono; comunque sia, esso aggrega, muove e coinvolge migliaia di persone, e produce curiosità aggiuntive in molte di esse; al suo abbraccio soffocante (penso quasi con angoscia alla confusione della notte di Torrepaduli) ci si può anche sottrarre, non è obbligatorio abbandonarvisi.
Il ritmo meridiano, inteso come libro, è utile proprio perché rende espliciti i contorni e le direttrici di questa costruzione, racconta che essa avviene per sottrazioni, per semplificazioni, attraverso lo spostamento e l’inversione dei significati, talvolta attraverso innesti quasi impensabili (il coreologo Giuseppe Gala ironizza, per esempio, sui passettini in versione kimono praticati nel ballo, e sappiamo bene che i gesti della danza scherma sono stati surclassati da quelli a dir poco innovativi degli esibizionisti incompetenti). Vi troviamo anche alcuni accenti di sincero rammarico, centrati sull’enumerazione di quel che manca, che viene escluso. Credo semplicemente che non sia realistico immaginare che quanti partecipano al gioco della pìzzica siano tutti interessati a saperne di più e a saperlo meglio o si commuovano al pensiero di chissà cosa si stanno perdendo; lo spazio della ricerca non può coincidere con quello pestato dai ballerini festaioli, è enormemente più vasto, per fortuna, i percorsi sono infiniti, talvolta tortuosi, difficili da seguire in comitive troppo affollate. Realmente il movimento complessivo ha riservato spinte e (poche) risorse alla ricerca sul territorio; si può far meglio: la pubblicazione di questo libro e l’interesse che ha suscitato non sono forse segnali incoraggianti?