da Paese Nuovo (inserto pugliese de l’Unità) – di Luigi Lezzi
“Tabacco e tabacchine nella memoria storica. Una ricerca di storia orale a Tricase e nel Salento”. Questi il titolo e il sottotitolo di un libro uscito da pochi giorni, curato da Vincenzo Santoro e Sergio Torsello, e dato alle stampe da Manni Editore. Si tratta del racconto a più voci delle vicende umane, individuali e sociali, che ruotano attorno a un edificio: l’Acait di Tricase, nel Capo di Leuca.
Acait è l’acronimo che indica lo stabilimento in cui ha avuto sede, fin dalla sua nascita esattamente un secolo fa, l’Azienda Cooperativa Agricola Industriale, consorzio che si proponeva principalmente di promuovere nella zona del Sud Salento la coltivazione e la lavorazione del tabacco. Le pietre dell’edificio, oggi in stato di abbandono, riprendono colore attraverso le pagine di questa pubblicazione voluta dal sindaco di Tricase Antonio Coppola e dall’amministrazione comunale, che si propone anche di acquistare i locali e di riconsegnarli alla collettività per un proficuo uso culturale. Il 28 dicembre scorso, in occasione del centenario della fondazione del consorzio, questo programma è stato ribadito alla presenza di diverse centinaia di cittadini convenuti per la presentazione del volume.
È un racconto a più voci non solo perché a curarne l’edizione è stato il tandem Santoro-Torsello, già efficacemente collaudato con la recente pubblicazione della raccolta di saggi “Il Ritmo Meridiano. La pizzica e le identità danzanti del Salento”. La coralità è dovuta soprattutto alla voce riportata di ben trentadue testimoni che, come seduti attorno ad un unico grande tavolo, ricordano le cose belle e quelle brutte che sono successe in poco meno di cento anni nell’Acait e attorno ad esso. Ciascuno con la sua personalità, ciascuno con la sua lingua (una miscela a percentuali variabili di lingua nazionale e di dialetto del Capo di Leuca), ciascuno con il suo diverso livello di coscienza sociale e politica, tutti i protagonisti del racconto riescono comunque a tenerci inchiodati con le loro parole. La freschezza dello stile orale fedelmente riportato ti fa sentire immediatamente presente alla narrazione e quasi ti pare di sentire l’odore forte del tabacco di cui parlano, prima verde e unto e poi secco e bruno.
Il libro ci cala in un secolo di storia salentina già descritto e debitamente analizzato nei testi a cui i curatori debitamente rimandano nelle note bibliografiche. Vi troviamo aggiunti i risultati di una ricerca nella memoria dei protagonisti che finalmente raccontano senza intermediari le loro personali vicende che sommate fanno la Storia. Né bellissime né tremende, sono semplicemente le vicende della vita, in cui il sublime e l’orrido si mischiano e si alternano senza compiacimento e senza pietà.
Il racconto riporta anche i fatti amarissimi: cinque morti, sessanta feriti e settantaquattro arresti durante la sommossa del 15 maggio del 1935. Di Vittorio, sulle pagine di “Stato Operaio”, definì enfaticamente quella giornata “La rivolta di Tricase”, caricandola di un significato antifascista che nel libro viene ricondotto alla sua giusta dimensione. Ci pensa Alessandro Portelli (Presidente a Roma del Circolo Gianni Bosio, per la ricerca sulle fonti orali), nella sua introduzione, a darci la misura equilibrata e la portata antifascista di quel gesto popolare di quasi settant’anni fa che trova continuazione oggi nell’onesto recupero della memoria. Portelli mette in guardia, fra l’altro, contro quella “rappresentazione e gestione di un Salento dimezzato, fuori dalla storia, dove non è mai successo e non succede altro che il morso della taranta. È una distorsione che può anche fare il gioco a breve termine di operatori turistici o culturali di corte vedute, ma che a lungo termine, con l’esaurirsi della moda, rischia di lasciare tutti con un pugno di mosche. (…) nel 1935, il loro problema (degli uomini e delle donne di Tricase) non era tanto quello di curarsi dal morso della taranta, ma quello di confrontarsi con un potere politico ancor più ostile”. Oltre a un Salento mitico, folklorico, che secondo la facile teoria neo-tarantistice richiederebbe da sempre stati alterati di coscienza, occorre definire, attraverso mirate indagini di memoria, un Salento “armato del vecchio e del nuovo”, capace di autodefinirsi nel presente e di proporsi al futuro.
Attraverso il libro si ripercorre il viaggio che ha fatto la pianta del tabacco per giungere con Cristoforo Colombo dalle Indie in Europa e ci si sofferma a descrivere i risvolti umani e sociali della sua tappa nel Salento. Ogni lettore pugliese vi ritroverà i racconti o le allusioni dei propri nonni, che, in diversa misura, hanno avuto tutti a che fare con storie di sequestri, di controlli e di verbali da parte della Guardia di Finanza. Il tabacco si coltivava sotto strette restrizioni e lo spirito ribelle dei nostri contadini non sempre è stato ben disposto ad assecondarle, soprattutto dietro la pressione della fame.
Le poco più di centocinquanta pagine, scorrono d’un fiato sotto i nostri occhi come un’agile rappresentazione teatrale. Gli attori e autori dei testi sono gli stessi protagonisti delle vicende, quindi non mancano di convinzione; i due registi li lasciano agire, ma ne moderano sapientemente la presenza in modo da non scadere mai nell’oleografico, da non uscire mai fuori traccia, in modo da alternare piacevolmente le voci per non stancarci e per sorprenderci di continuo. L’edificio teatrale è lo stesso capannone abbandonato dell’Acait, riaperto per l’occasione, che si riempie, con lo svolgersi delle scene, di padroni bonari ma austeri, di centinaia di ragazze-lavoratrici discrete ma socievoli, di contadini rassegnati ma fieri della propria povertà. La scenografia è fata di casse di legno, di balle e ballette, di filze e telaietti, di grembiuli, di merende nascoste nelle tasche e consumate di furtivo, miste alla terra bruna del tabacco. Qualche principio di storia d’amore vero e qualche sordida tresca fra dirigenti aziendali e ragazzine ricattate dal bisogno del lavoro fa da diversivo ad una sceneggiatura austera e coerente che descrive e vuole dare peso solo alle speranze di riscatto di una comunità attraverso l’ostinazione e il lavoro.
Molte sono le analogie di ambientazione con il racconto di Prosper Merimée su cui è basata la “Carmen” di Bizet (si ripete anche l’esito in tragedia), ma mai emerge, nel caso salentino, il dubbio che la narrazione sia amplificata da artifici letterari e che i personaggi sfuggano in qualche modo alle crude necessità della vita reale. Se anziché sigaraia a Siviglia, la bella gitana fosse vissuta a Tricase, forse avrebbe potuto ricevere da Don Josè non un amore tragico, ma un colpo di moschetto durante i tumulti. A trattenerci di continuo nella dimensione prosaica e reale della Storia, lungi dalla dimensione fittizia della letteratura, contribuisce anche l’uso del dialetto da parte dei narratori, fedelmente riportato e tradotto dai curatori.
L’accostamento fra il dialetto e la dimensione teatrale da noi avvertita potrebbe far pensare a quell’effetto farsesco cui conduce, di norma, il nostro teatro dialettale. Il libro offre invece un ottimo esempio con cui l’idioma salentinosi disimpegna nettamente da questo vizioso e facile accostamento, a vantaggio della figura del nostro contadino che, smessi del tutto i panni della grossolana comicità, usa con pertinenza la sua lingua per descrivere adeguatamente la drammaticità dell’esistenza.