Luigi Stifani: la musica e il personaggio

Sandro Portelli con Chiara Lico

da www.caffeuropa.it del 05/08/2000

Luigi Stifani

Luigi Stifani

“Tutte le tarantolate che ho curato musicalmente col violino, coll’organetto (…) le ho guarite con la terapia della musica. Dall’età di quattordici anni (…) ne ho guarite oltre una cinquantina”. Luigi Stifani un po’ racconta e un po’ recita di fronte alle telecamere dirette da Edoardo Winspeare nel documentario San Paolo e la tarantola. E’ il 1991. Nelle sequenze che si avvicendano e che ci regalano il suo autoritratto, Stifani parla in dialetto e gesticola per spiegarsi, ha baffi scuri e un paio di occhiali poggiati sul naso. Accanto, il violino. Che tiene ora sulla spalla, ora in mano, così, giusto per il contatto.

Nove anni dopo, il 28 giugno, quel barbiere, musico e taumaturgo muore. Ironia della sorte: proprio nel giorno della festa di San Paolo a Galatina, quello in cui le sue tarantate guarivano. A raccontare di lui e del confine sottile che separa la parola scritta da quella parlata è oggi il suo diario, che non è una collezione di memorie e non racconta storie, ma è piuttosto un taccuino di viaggio e una rubrica musicale, un promemoria per non dimenticare e uno stralcio di vita solo sua, dove ci sono i testi delle sue canzoni, gli spartiti con le sue note, il suo metodo di scrittura musicale e le storie delle donne che lui ha fatto ballare fino allo sfinimento, fino alla rinascita.

In Io al santo ci credo, curato per le Edizioni Aramirè da Luigi Chiriatti, Maurizio Nocera, Roberto Raheli e Sergio Torsello, “Stifani si mette al confine fra oralità e scrittura (…) e se le sue scritture (biografica e musicale) sono mediazioni che mettono in comunicazione la scrittura e il suono, la sua musica è una mediazione che mette in comunicazione il suono con il corpo e il corpo con se stesso”.

 

A definire con queste parole il “diario” e a raccontarci quest’uomo, la sua musica e la sua rilevanza oggi è Sandro Portelli, autore dell’introduzione al volume.

 

Professor Portelli, perché editare un libro come questo?

Perché molti artisti e molti operatori culturali hanno voluto ribadire la loro identità attraverso la tradizione orale e dal forte attaccamento alla musica. Recuperare Stifani significa, in questo senso, recuperare le proprie origini.

Che cosa ha sentito il bisogno di far conoscere: la musica o il personaggio?

L’una e l’altro. Stifani era un musicista particolare, che della musica si è servito per guarire dal tarantismo. E’ impossibile, quindi, scindere i due: perché un personaggio consapevole come lui si è costruito grazie alla musica.

 

Stifani è in bilico “tra oralità e scrittura”. Appartiene più all’una o all’altra?

Nell’oralità, Stifani è a casa sua. E’ un musicista che appartiene alla tradizione popolare, quindi verbale. Ma per paradosso, il suo fascino è nell’aver voluto fissare con e nella scrittura i suoi saperi di estrazione orale. La sua grafia è quella di un irregolare. E allo stesso tempo è particolare il suo modo di creare musica.

 

Dunque, Stifani è al confine…

Un confine è un non-luogo, è come l’esilio. Per gli scrittori, in particolare, l’allontanamento è l’unica possibilità per creare. Nel caso di Stifani, la casa era il Salento. Lui decide di spostarsene culturalmente, e nel momento stesso in cui decide di allontanarsi dalle sue radici, gli è possibile entrare nella scrittura. Per uno strano capovolgimento dell’ottica, ecco che lui diventa il nostro maestro, colui che rende accessibile a noi “ignoranti” la cultura orale.

 

Perché Stifani ha voluto mettere per iscritto il suo mondo, rischiando così di mescolare i codici della comunicazione?

Quello della contaminazione non è un rischio. Piuttosto, Stifani è consapevole di essere un intellettuale. Quindi, scrive per ricordare con più facilità, per rappresentare se stesso, la propria biografia. Scrive per comunicare. Ecco perché diviene una figura alla quale gli antropologi chiedono conferma.

Stifani fa appello a un modo di scrittura suo proprio. Lei come lo definirebbe, tenendo conto del fatto che definirlo significa inscriverlo?

La “scrittura popolare”, alla quale appartengono ad esempio i diari dei soldati o le lettere degli immigrati, è un fenomeno ampiamente dibattuto dagli studiosi. Anche quella di Stifani è un’autobiografia del mondo popolare. Il suo fascino, però, nasce dal fatto che lui si trova vicino a due grammatiche: quella dell’oralità, con l’uso del dialetto, e quella normativa. Ne nasce è un grammatica ibrida che oscilla tra le due dimensioni.

Portelli, lei fa riferimento a Boas per dire che bisogna distinguere tra “informatori” e “portatori di fatti”. E poi afferma che Stifani sarebbe un pessimo informatore.

Boas sottovalutava il fatto che gli esseri umani possono interpretare la loro esperienza. E Stifani fa esattamente questo: riferisce le sue interpretazioni.

 

Che cosa rappresenta la musica per Stifani?

Anzitutto, un mestiere, perché appartiene alla cultura artigiana. Quella, per intenderci, in cui l’attività che si svolge deve fondere al suo interno la competenza tecnica, la fonte di reddito e il ruolo sociale che ne deriva. Parallelamente, però, la musica è stata per lui anche una fonte d’espressione, un modo per rendersi visibile.

 

Se Stifani dovesse scrivere la propria autobiografia , la scriverebbe in musica o a parole?

La sua vita è raccontata implicitamente nella musica, nel senso che Stifani si è rappresentato musicalmente nei luoghi e nei tempi creati dalle note del suo violino.

Perché Stifani e il suo mondo sono interessanti in questo momento?

Per molte ragioni. La prima è che il Salento sente fortemente le sue radici, pur se non in modo esclusivo o autoreferenziale. Basti pensare a come questa regione si sia posta di fronte al fenomeno dell’immigrazione. In secondo luogo, c’è un forte revival della musica, da quella popolare a band come i Sud Sound System. Stifani stesso è un fenomeno all’interno della cultura popolare.

 

Stifani viene ascoltato dai veentenni e dai cinquantenni. Che cosa racconta un personaggio come lui a generazioni tanto lontane e diverse?

Ai ventenni e ai trentenni spiega una tematica, quella della trance rituale, che molti studiosi hanno rintracciato nelle culture del sud del mondo e in quelle giovanili. Al cinquantenne, invece, racconta le trasformazioni culturali del proprio paese: come l’Italia si sia tirata fuori dall’analfabetismo, dalla povertà. Stifani, in sintesi, è l’autobiografia di una generazione.

 

Il “diario” è stato presentato a Pisa a giugno e sarà presentato a Roma a settembre al centro sociale “Villaggio globale”. Perché un testo così atipico può interessare i giovani che frequentano i centri sociali?

 La musica popolare nei centri sociali riscuote sempre grande successo. Si tratta di una musica semplice, che non chiede sofisticati apparati tecnologici per essere seguita. E’ fortemente socializzante. Nei centri sociali, in particolare, diminuisce la distanza tra artista e pubblico. E poi, la musica popolare è un territorio “altro” che nei centri sociali trova la sua zona franca, libera.
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