La festa, la farina, la forca. Intervista a Giovanni Pellegrino

1547912_1417535198528427_2317015691080742026_o Intervista raccolta da Vincenzo Santoro il 3 gennaio 2019, confluita – in versione più ampia – nel libro Rito e passione. Conversazioni sulla musica popolare salentina (Itinerarti 2019). Giovanni Pellegrino è uno dei principali attori del lavoro collettivo e di lunga durata di “rivalutazione” del Salento e della sua storia culturale. Singolare figura di intellettuale “di base” e instancabile ed estroso operatore culturale, mise in essere, negli anni settanta e ottanta, insieme ad altri suoi amici del luogo, una serie di azioni finalizzate a contrastare l’impoverimento culturale e la perdita della “memoria” delle piccole comunità salentine, che avrebbero lasciato il segno e che in molti casi posero le basi per il “rinascimento” degli anni novanta. La pubblico qui per onorare Giovanni Pellegrino nel giorno del suo 80-mo compleanno.

 

Sono nato il 21 dicembre del 1941 a Zollino. Non parlo grico perché mia madre – si chiamava Vincenza Del Piano – non lo parlava. Mio padre Donato invece era di Zollino, parlava il grico con suo padre, ma se c’era mia madre parlavano in dialetto per farsi capire. A Zollino sono ostinati e l’ostinazione mi viene da lì, mentre la fantasia mi viene da Soleto. Quindi dire che sono di Zollino è un po’ fuorviante, diciamo che ho un’origine più articolata. A Soleto mio nonno era un mazzola (spaccapietre) e cavamonti, una persona modestissima che si era fatta avanti con il lavoro, arrivando ad essere imprenditore stradale, con le sue arguzie e con le sue feste familiari. Eravamo cinque figli, io ero  il primo. Mio padre era un piccolissimo proprietario di terra, due ettari circa. Mia madre invece, con mio nonno, si trovarono nel boom dell’edilizia stradale, dopo la guerra; successivamente spinse mio padre ad aprire una piccola impresa di lavori stradali. Avendo dimestichezza nei rapporti con tecnici, ingegneri, assessori eccetera, mia madre aiutava molto mio padre, di fatto spesso gli diceva come doveva comportarsi, cosa dire. Io assistevo e imparavo lo spirito di avventura e l’essere estroverso. Amavo molto il lavoro pratico, la manualità, che allora si apprendeva fin da piccoli, aiutando in campagna o nei lavori domestici fin dai cinque, sei anni. A dodici decisi di diventare apicoltore e a quattordici cominciai, contro tutto e tutti, costruendo personalmente due alveari e seguendo anno dopo anno fino ad averne una quarantina. La bicicletta di mio padre, in tempi in cui i ragazzini non avevano altro per girare, mi permise di conoscere a fondo il Salento facendo, a quindici anni, anche cento e più chilometri in un giorno.  In quel momento era cominciata la scolarizzazione di massa ma ancora solo un figlio per famiglia era mandato a scuola, gli altri andavano a lavorare in campagna oppure emigravano. Invece a casa mia siamo andati a scuola tutti. Io ero portato ad apprendere autonomamente, ero un autodidatta nato, anche per i lavori pratici: mi rendevo conto che la scuola in gran parte era una perdita di tempo, si imparava di più studiando autonomamente. Mia madre, per darmi una maggiore regola sullo studio e per risparmiare, mi fece frequentare il seminario di Otranto. E lì mi si aprì un mondo. Cominciai nel 1952. Lì c’erano professori molto seri, che imponevano delle regole severe. La passione per i libri mi è venuta da lì: in seminario capisco che anche cinque righe di un libro possono aprirti la testa. Una volta tornato a casa una parte dei miei risparmi li spendevo in libri. Ad esempio a un certo punto conobbi Danilo Dolci. Un giorno – avevo quindici anni – passai davanti ad una libreria a Lecce e vidi un libro di poesie di Dolci. Lo sfogliai e mi piacquero molto queste “poesie sociali”, e ordinai una serie di suoi libri. Mi interessava molto il famoso progetto della diga a Partinico, di cui mi feci addirittura mandare i progetti per studiarmeli.

Ma questa sensibilità sociale da dove veniva?
Questa sensibilità sociale mi veniva molto dall’insegnamento cristiano, a quel tempo non era possibile niente di diverso. Meditavo sulle encicliche sociali, leggevo don Milani, Alessandro Pronzato, preti e “vangeli scomodi”. I documenti del concilio ecumenico di Papa Giovanni XXIII. Fino ai ventitré, ventiquattro anni, nei nostri paesi – in particolare Zollino – non si parlava quasi mai di politica. Io però sentivo la necessità di approfondire, per cui cominciai a riunirmi con dei miei amici, per confrontarci. Due di loro emigrarono a Milano e vennero in contatto con altri ambienti e questo mi permise di arricchirmi. Poi ho fatto il militare – la leva era obbligatoria – come allievo ufficiale, sono diventato tenente dell’esercito. In quel momento ancora non avevo una vera e propria posizione politica ma volevo rimandare la chiamata alle armi perché avevo delle invenzioni su cui stavo lavorando e non volevo lasciare le cose a metà. Dopo aver conseguito il diploma di geometra mi iscrissi all’università di Bari, a Economia e Commercio, che solo in parte mi piaceva perché io avrei preferito studiare una materia a metà fra economia e tecnologia, ma in pratica era solo una scusa per ritardare il servizio militare. Alla fine ritirai l’iscrizione e mi arrivò la chiamata. Mi rivolsi allora alla caserma dei carabinieri chiedendo un modo per rinviare ancora di qualche mese – in quel periodo stavo progettando una piantatrice di tabacco a motore e altre diavolerie del genere – e loro mi suggerirono di fare la domanda per allievo ufficiale, che avrebbe effettivamente consentito un rinvio: insomma, tanto feci tanto non feci che mi presero.

L’interesse per la politica, invece, quando comincia?
A Zollino avevo un amico che aveva quattro anni meno di me ed era un “mangialibri”: si chiamava Paolo Pellegrino, che ora insegna estetica all’università. Con lui cominciammo a prendere delle iniziative politiche. Volevamo fare qualcosa ma non trovavamo referenti locali che ci accompagnassero. I democristiani locali erano di fatto dei fascisti riciclati e quindi non ci interessavano. C’era la sezione socialdemocratica, in cui l’attività prevalente era giocare a carte. Alla fine siamo entrati lì, questi ci accolsero bene, anche perché eravamo giovani e inaspettati. Cominciammo a fare delle riunioni. Iniziammo dunque a fare politica nel PSDI. Io però, da cattolico praticante, avevo avuto un certo piccolo ruolo nella locale Azione Cattolica e quando seppero dell’iscrizione a quel partito successe un pandemonio. Intanto in me era maturata ancora di più una coscienza sociale, anche grazie a letture importanti suaccennate. Ma attraverso le amicizie con persone più inserite nelle dinamiche della sinistra studentesca cominciai a leggere anche cose come i “Quaderni Piacentini”. Per cui a un certo punto fondammo a Zollino, nella sezione del partito socialista – perché intanto nel 1966 il PSDI si era felicemente unito al PSI – con altri ragazzi più giovani di me, un centro studi dedicato a Gaetano Salvemini. Tutte le settimane ci incontravamo per approfondire un tema, culturale o politico, magari partendo dalla lettura di un libro importante. E andammo avanti così per un anno, finché i dirigenti della sezione cominciarono a preoccuparsi, perché noi non eravamo sotto il loro controllo. Allora ci sbarrarono la strada, quell’esperienza finì ed io uscii da quel partito, rimanendo un cane sciolto. Intanto a Zollino avevamo cominciato ad organizzare delle feste del sabato sera, con ragazzi e ragazze, che allora non uscivano facilmente. Fu una cosa che mise un po’ di subbuglio nel paese e andò avanti per qualche anno. Ero un tipo un po’ irrequieto: mi piaceva molto la campagna, allevavo le api, inventavo nuovi attrezzi agricoli; non andavo molto d’accordo con la mia famiglia, dove tutti lavoravano nei lavori stradali.
Quando scoppiò il ’68, mia sorella, che aveva quindici anni e faceva il primo anno di ragioneria, partecipò alle occupazioni, che per allora erano delle cose molto rivoluzionarie: tutti quei ragazzi, maschi e femmine, che rimanevano per giorni a scuola senza i professori. Un po’ preoccupato, un po’ incuriosito, decisi di partecipare anche io a qualche assemblea e lì mi convinsi che gli studenti stavano dalla parte della ragione. Incappai così in un gruppo marxista-leninista che frequentai a lungo.

Ma come fu che partisti per il Nord?
Alla fine degli anni sessanta avevo inventato un “martellone” per lo scavo di roccia, per la cui produzione creai anche una società per azioni, la prima del genere nella nostra provincia, ma purtroppo non riuscimmo a raccogliere i finanziamenti necessari per portare il progetto fino in fondo e dopo tre anni la cosa fallì o meglio dovette chiudere. A quel punto, nel 1970, decisi di andarmene a Milano in cerca di fortuna. Subito prima di partire, nel periodo di Natale, organizzammo a Zollino un dibattito sul tema dell’emigrazione, in cui ci furono sedici interventi, con gente di moltissimi paesi. Cosa incredibile per l’epoca. Fu una cosa molto dirompente, perché poterono parlare i protagonisti emigranti, non solo i relatori. Da Corsano arrivarono, in vespa, Biagio Longo e Bruna Miorelli, che era della provincia di Trento; entrambi studiavano all’università allora avanguardia del movimento studentesco ed erano marxisti-leninisti. Quando andai a Milano fui ospitato da una classica famiglia di emigranti dal paese: lui lavorava all’Alfa, mi tenevano in pianta di mano perché mi volevano bene e per loro era importante dimostrare solidarietà ad un compaesano. Presto però rincontrai proprio Biagio e Bruna e subito dopo andai ad abitare da loro – cambiando frequentazioni, look eccetera – quel contesto mi interessava molto di più!

L’interesse per la cultura popolare, come nacque e come si sviluppò?
Avevo già incontrato il primo Canzoniere fondato da Rina Durante, con Luigi Lezzi, Bucci Caldarulo e Anna D’Ignazio, che sentii cantare la prima volta a San Foca, in una saletta. Diciamo che in quel momento non ne fui particolarmente impressionato: cantavano benino, ma non meglio dei canti dei miei compaesani che abitualmente lo facevano ancora in strada o all’osteria. L’illuminazione arrivò proprio durante l’esperienza milanese. Gli abitanti della casa facevano parte de “La Comune” il circolo culturale legato a Dario Fo, il quale faceva gli spettacoli a trecento metri da casa nostra, peraltro ad un costo politico. Ad un certo punto assistetti ad una rappresentazione dello spettacolo Ci ragiono e canto, con Ciccio Busacca. Quando lo vidi pensai subito a certi paesani che conoscevo, esperti nelle arti popolari. Partecipai a tutti gli spettacoli e alle loro repliche, dopo le quali si svolgeva regolarmente uno stimolante dibattito. Così cominciò in me l’interesse per la “cultura popolare”. Tornando da Milano, nel ’72, fondai con Fernando Caputo un vero e proprio centro sociale, chiamato “La capanda”, un luogo aperto a tutti, dove si facevano riunioni, si discuteva e si organizzavano manifestazioni. Nel 1974 aprimmo anche un centro culturale in un frantoio ipogeo, il primo frantoio aperto al pubblico in provincia di Lecce, dove ancora si continuava a ignorarli e addirittura a distruggerli. Lì, con Brizio Costantini e altri amici, fondammo il Circolo popolare di Zollino, puntando al recupero e rilancio delle feste campestri: le Pasquette, San Biagio alla Macchia e altre. Preparammo anche un recital ispirato alle cose di Dario Fo e ad una favola del poeta siciliano Ignazio Buttitta, Coppule e cappeddhi. Eravamo in quattro: io facevo parti recitate e qualche piccolo canto, c’era Rocco Caldarazzo – fratello di Uccio – Brizio Costantini, Cici Cafaro, mia sorella Lucia, poi altri che ruotavano. Il repertorio era composto da canti popolari e canti di lotta, sul modello degli spettacoli che avevo sentito a Milano. I canti erano Fimmene fimmene, A meru a Lecce me tira me tira, Moretto moretto e altri: Opillopillopì, composta da Uccio Caldarazzo, era il nostro cavallo di battaglia. Raramente qualche canzone in grico, perché io non lo conoscevo. La maggior parte delle canzoni che riproponevamo si cantavano normalmente a Zollino, dove per i vent’anni successivi si continuò diffusamente a cantare per strada.
A metà spettacolo, nelle feste di diversi paesi, andavamo vicino ai tavoli dove si mangiava per una finta pausa e lì, tra un piatto di pezzetti e un bicchiere, cominciavamo a cantare, coinvolgendo gli astanti e quelli che stavano cucinando, che essendo gente del posto certe canzoni le conosceva benissimo. Io quella la chiamavo “la coda della festa”, che poteva durare anche molto a lungo: per me la festa riusciva se riusciva la sua “coda” spontanea. In tutto questo la pizzica, il tamburello non c’erano, perché localmente dati per persi. Il primo tamburellista che vidi, svariati anni, dopo fu Leonardo Serra, detto Tatti, contadino allevatore di Corigliano, raccolto nel gruppo Argalìo. In realtà nei primi gruppi della riproposta compariva il tamburello, ma non era un fatto esaltante come quando suonava un tamburellista “vero”.
In quel periodo il mio interesse per la cultura popolare derivava dall’interesse per la campagna, perché quei canti corali facevano parte del mondo della campagna, parte importante del mio mondo, che speravo si rivitalizzasse anche attraverso la canzone popolare.
Nel 1975 con altri amici organizzai una rappresentazione della Passione in grico, tradizione che, come altre, si stava perdendo.

Nel 1974 ti capitò anche di incontrare l’Odin Teatret di Eugenio Barba, nel corso della loro residenza salentina. Ti si vede anche in alcuni fotogrammi del documentario che girarono per la Rai. Come si svolse la cosa?
Io li incontrai una prima volta a Soleto, durante una loro festa-baratto, ma fu per caso e di straforo: la conoscenza non fu approfondita. Mi servì solo a intravedere due contadini-artisti che molto dopo avrei scoperto essere “Gli Ucci” e a capire che nel territorio c’erano presenze sconosciute, potentissime ma ancora sconosciute. Quando l’Odin venne a Milano – nel 1976, a fare una settimana di spettacoli, e poi a Bergamo – io che ero lì, ho preteso di seguirli dappertutto. Li ho seguiti partecipando ai loro dibattiti e ho conosciuto Nando Taviani. Avevo telefonato all’albergo dove stavano, avevo preso appuntamento con Eugenio Barba, dicendogli che ero salentino e che volevo parlargli, e lui mi ha invitato a mangiare qualcosa. Quando sono arrivato gli ho detto “lo sai che la Festa te lu mieru che voi avete lanciato sta facendo faville?”. E lui mi rispose “ma quale Festa te lu mieru?”. Non sapeva niente di quello che stava succedendo a Carpignano. Io già nel ’72 avevo teorizzato, come già detto, di recuperare le feste campestri, che significava anche le feste del prodotto e fui molto colpito di non essere il solo ad avere quest’idea. Allora erano tutte feste dei santi ma per me il rilancio della campagna voleva anche dire rilanciare i prodotti della campagna, anche attraverso delle feste. Andai alla seconda edizione della Festa te lu mieru, vidi il palco libero, gli stand gastronomici con i prodotti locali, insomma, mi piaceva molto come era impostata. A quel punto ci sentimmo incoraggiati, scalammo di marcia e provammo a fare la Festa del Fuoco a Zollino, la cui prima edizione si realizzò nel 1978.

Quindi la Festa del Fuoco in qualche modo deriva dalla Festa te lu mieru?
Non esattamente, ma ne fu ispirata. A Zollino, come in altri paesi, c’era la tradizione della Fòcara de Sant’Antoni (Abate) con il falò augurale che si accendeva la vigilia della festa del santo. Era una festa ormai degradata e non riconosciuta dalla Chiesa. C’erano i ragazzi che un mese prima andavano in giro a chiedere un contributo in legna alle famiglie e il 17 gennaio, la notte prima della festa del santo, accendevano questa fòcara, quando la gente usciva dalla funzione serale. C’era solo questo e tutto finiva lì, in una piccola festa marginalizzata che interpretavo com sopravvivenza di un rito che in passato doveva essere più sentito e strutturato. Veramente all’epoca la gente stava anche cominciando a non donare più la legna – come era nella tradizione – per cui i ragazzi a volte la rubavano, tagliando anche alberi grossi e i padroni ovviamente minacciarono di denunciarli. Insomma le cose si stavano ingarbugliando e si rischiò di non fare più la fòcara.
Il 1978 per me fu un anno importante, perché grazie a un’eredità avevo un po’ di soldi. Presi in affitto un bel locale e lì cominciò a riunirsi il Circolo popolare di Zollino. In quel contesto ritenemmo maturo il tempo di fare la Festa del Fuoco che già nel titolo si annunciava polemica e alternativa. All’inizio non tutti i miei amici erano convinti. Comunque cominciammo a chiedere dei contributi ai cittadini, che era anche un modo per farli collaborare, e decidemmo di spostare la data in un giorno tra Natale e Capodanno, periodo in cui c’era più gente perché gli emigranti tornavano ai paesi per le feste natalizie. Provammo a coinvolgere i socialisti, che all’inizio aderirono, ma due giorni prima della festa si dissociarono pubblicamente e di fatto boicottarono, forse per il timore di una cosa nuova. Prendendo spunto dalla Festa te lu mieru organizzammo un palco libero: ognuno viene e fa quello che vuole. Però divieto di fare canzoni strettamente politiche, legate ai partiti. Sul palco libero si creò un po’ di caos, a volte sui microfoni cantavano in contemporanea canzoni diverse. Insomma, nonostante tutto, la festa si fece e andò anche molto bene. Si fa tuttora con molto successo dopo quarant’anni.

A proposito di documentari, sei stato anche il protagonista di uno dei più importanti girati nel Salento di quegli anni, La festa, la farina, la forca di Sergio Spina.
Nel 1979 fui coinvolto in questo documentario girato da Sergio Spina per la Rai, a cui parteciparono anche Rina Durante e il Canzoniere Grecanico Salentino. Il regista lo conoscevo poco e niente ma mi chiese di organizzargli una serie di interventi “popolari” che si potessero filmare. Io gli proposi i canti spontanei dell’osteria, che a Zollino si facevano ancora; purtroppo di quelli nel documentario c’è solo l’audio con delle foto, perché la troupe si rifiutò di venire a girare in quanto aveva fatto già le sue ore di lavoro. Poi gli proposi di intervistare Cici Cafaro e andare dove facevano le friselle, dove infilavano il tabacco e in altri contesti agricoli, attuali o storici, come le pozzelle. La parte del Canzoniere invece non la organizzai io. Allora il mio rapporto con loro non era così intenso, anche per motivi logistici. Io stimavo la Durante. Una volta, alla fine degli anni sessanta – quando avevamo una comune militanza socialista – organizzai un comizio a Zollino sulla cultura e chiamai lei. Successivamente collaborammo in altre occasioni.

E veniamo a quella che forse è stata la tua impresa più importante, almeno nel campo del “popolare”: Ritorno a San Rocco.
La vicenda ha le sue origini in un episodio di diversi anni prima. Una volta, con gli amici di Zollino, facemmo uno spettacolo a Corsano, che pensavo sarebbe finito male perché avevamo introdotto degli slogan “pungenti” contro il MSI e la DC – MSI/ fuorilegge/ a morte la DC/ che lo protegge! – che nel paese del Capo erano l’amministrazione: sindaco e maggioranza MSI e opposizione DC. Invece con nostra grande sorpresa andò molto bene. Finito lo spettacolo i compagni di Corsano mi dissero “Giovanni, il 15 agosto devi andare a San Rocco”. Io non sapevo nemmeno di cosa stessero parlando ma loro insistettero parecchio. Per diversi anni mi dimenticai di andarci – a ferragosto succedono tante cose – fino a quando, nell’81, decisi di andarci veramente, per capire cosa era rimasto di questa festa mitica di cui tanto mi avevano parlato. All’inizio mi sembrò una delle molte feste patronali della zona. A un certo punto però, verso la tarda serata, qualcuno cominciò a suonare il tamburello. Dopo la processione suonarono tre tamburellisti – fra cui Antonio Metafune, il fratello di Ada, che allora era studente, poi diventò ingegnere, Amedeo De Rosa e un altro di cui non ricordo il nome. C’era anche Pino Zimba. Questi un poco suonavano, un poco si fermavano, ballavano un poco di scherma, un po’ sul serio, un po’ a pagliacciata, un po’ si sfottevano. La ronda, inclusiva di suo, si ricambiava continuamente ma io stavo un po’ sulle spine, perché intravedevo una partecipazione un po’ degradata e volevo capire cosa era rimasto e se riuscivamo a tenere fino all’alba. Verso le 3 sono arrivati i carabinieri e hanno fatto smettere. Ma noi ci spostammo di qualche centinaio di metri e si ricominciò a suonare e ballare fino all’alba. Per cui arrivai alla conclusione che ancora qualcosa della vecchia festa si era mantenuta. Si coglieva però che non c’era più lo spirito di gruppo. La festa è un insieme che riunisce degli appassionati, che le danno sostanza, è tutto un rito a cui si partecipa. In quel momento questo legame c’era ancora anche se molto sfilacciato. Allora pensai che occorreva riallacciare quei legami. Partendo innanzitutto dai tamburellisti: “Sono venuti tutti quest’anno?” chiedevo. Venni a sapere che mancavano parecchi di quelli più bravi. Cominciai un’indagine, parlando con loro e cercando di capire perché non venivano più alla festa. Una delle motivazioni, che oggi può sembrare addirittura paradossale, è che diversi di loro non avevano più un tamburello, perché se ne stava perdendo l’uso. E un tamburellista senza tamburello a cosa può servire? Quindi individuai i tamburellisti migliori, sparsi per tutto il Salento, e feci costruire per loro dei tamburelli seri, rivolgendomi ai costruttori tradizionali. Allora come costruttori erano attivi sicuramente Nino Sancesario di Nociglia, ma anche uno a Ugento – era molto vecchio e gli chiesi di insegnarmi a costruirli ma lui disse di no – e uno, che li faceva malissimo, a Lecce. Per fare questa cosa misi mano al mio portafoglio ma poi riuscii ad avere un finanziamento dal Comune
di Cutrofiano, che era uno dei luoghi fondamentali, perché c’erano gli Ucci e diversi danzatori di scherma, che animavano le “ronde” di Torrepaduli e l’idea era di svolgere una delle iniziative lì. Andai al Comune da ignoto e mi diede ascolto Giovanni Leuzzi che, nonostante non lo conoscessi, sposò il progetto e fece dare un contributo importante.

Gli Ucci quando li avevi conosciuti?
Pochi mesi prima, in occasione delle riunioni per il progetto Il ragno del dio che danza, con cui in qualche modo collaborai, salvo poi abbandonare per dissenso profondo con gli organizzatori. Intanto avevo l’incarico di trovare dei cantori da far intervenire nelle riunioni preparatorie. Il professor Nando Taviani, con cui ero diventato amico, mi procurò un appuntamento con Uccio Aloisi, a casa sua, in via Goito, 10 a Cutrofiano. Disse “vai a nome mio”. Andai a trovarlo. In via Goito non c’era perché si erano trasferiti in campagna, e andai lì, alli Munti. “Mi manda il professor Taviani. Potete venire a fare una cantata da noi domani?”. E lui disse “va bene, verrà pure l’altro Uccio”. Si fidavano molto di Nando Taviani, lu ‘Andu lo chiamava. L’indomani andai a prenderli, si trovarono pronti entrambi. Era marzo-aprile dell’81. La mia emozione era al massimo perché finalmente li conoscevo e perché sapevo che avrebbero dato una forza enorme al movimento della cultura popolare, dal quale erano inspiegabilmente assenti. La riunione era a casa di Uccio Caldarazzo, nella sua casa in campagna a Sternatia. Quando arrivammo lì c’erano molti operatori e intellettuali del Salento e “i professori”; c’era anche Tapa Sudana, che veniva da Bali. Agli Ucci vennero chiesti numerosi pezzi, fino a stancarli. E poi invitammo Tapa Sudana a fare qualcosa di suo. Lui prese il flauto e fece un bel pezzo. Uccio si sentì come provocato, in quanto uno dei suoi vezzi era il “fischio”. Così prese il microfono – che però era del registratore, non dell’amplificazione – e fischiando fece l’Amico Fritz. Una cosa sbalorditiva. Purtroppo le bobine con queste registrazioni sono andate perdute.

Ritorniamo a San Rocco. Come si svolse il progetto?
Prima di tutto svolgemmo una inchiesta a tappeto per tutto il Salento alla ricerca degli ultimi tamburellisti attivi o attivabili. Ne trovammo appena una decina. Quindi, dopo diverse visite e colloqui amicali organizzammo tre feste – a Ugento, Sannicola e Cutrofiano – per rimotivare la “gente del tamburello” e i loro amici e familiari, alquanto sottotono. E otto giorni prima della festa di San Rocco del 1982, qua a Cutrofiano, in concomitanza con la importante “Fiera dell’artigianato Figulo”, organizzammo la prima “Festa del Tamburello e della Pizzica”, il primo raduno tamburellistico del Salento; la prima volta che le “ronde” venivano organizzate fuori dalla fiera di San Rocco, ma con lo scopo preciso di sottolinearne l’importanza. Per l’occasione invitammo il professor Diego Carpitella, cosa che mi era venuta in mente perché lo avevano già invitato l’anno prima al Ragno del dio che danza. Mi sembrava che sarebbe stato importante portare un prestigioso docente in un contesto tradizionale, anche per spiegarne i significati mal compresi e dare prestigio al progetto. Ottenni anche l’avallo dell’Università di Lecce, in particolare dei professori Taviani e Savarese della cattedra di Storia del teatro. La parte organizzativa la curai io, con l’aiuto della mia ragazza di allora, Menalda Damato. Carpitella fu molto impressionato dal dibattito – che fu affollatissimo – ma soprattutto dalla festa che si svolgeva fuori, attorno a noi, che avvolgeva di fisicità reale e spontanea i suoi discorsi dotti. Poi mi chiese di invitarlo a Torrepaduli per partecipare alla festa, a cui venne accompagnato dal suo allievo Ambrogio Sparagna. Perché così si concluse il progetto, con una partecipazione collettiva alla festa di San Rocco che fu in qualche modo rivitalizzata e ritornò al centro dell’interesse dei suonatori e dei danzatori, ma anche degli operatori e degli attivisti.

A proposito di Torrepaduli e della scherma: che rapporti hai avuto con Giorgio Di Lecce?
Lo conobbi qualche mese dopo la chiusura del progetto, di cui aveva saputo, ma era impossibilitato a parteciparvi perché si trovava fuori. Venne con la sua fidanzata Cristina Ria, che aveva collaborato anche al raduno di Cutrofiano. Si dichiarò interessato all’operazione e ai suoi risultati, mi chiese la documentazione di cui disponevo e volle conoscere tutti i tamburellisti del Capo di Leuca che avevo scoperto. Lo feci di buon grado, anche perché ero esausto e il tamburello appena stanato aveva bisogno di forze fresche. Lui, che veniva dalla danza “colta”, si convertì immediatamente alla danza popolare. Lo aiutai a inserirsi, invitandolo alle mie feste. La sua esperienza di coreografo venne fuori più volte, suscitando anche polemiche, ma aprendo interesse e curiosità verso il tamburello e le sue danze. Infine fondò, anche con me, l’associazione Mediterranea – poi Aracne Mediterranea, poi ancora scissa in Novaracne – alla quale collaborai per un paio di anni, almeno localmente, finché non me ne andai a lavorare in Etiopia. Da allora lo seguii da lontano, rimpatriando ogni tanto per aggiornamenti. Giorgio si era concentrato sul tamburello e le sue danze e li fece conoscere fuori, in Italia e all’estero. Il suo apporto fu fondamentale, perché altrimenti, probabilmente, si sarebbero perse molte cose. Aveva capito, forse per primo, il quid che si nasconde nel tamburello e che sta facendo conoscere al mondo un’intera regione. Un quid che tuttavia, tra pasticci di assessori e sindaci in cerca di audience, secondo me, resta ancora da scoprire totalmente… la storia quindi non è ancora finita.

Per parlare ancora di personaggi fondamentali, che ci hanno lasciato troppo presto, quali sono stati i tuoi rapporti con Antonio Verri?
Lo conobbi alla fine degli anni settanta. Lessi alcuni suoi articoli che mi impressionarono molto. Un amico comune me ne parlò, io andai a trovarlo a Caprarica e mi trovai di fronte una persona molto strana e particolare. Mi colpì il fatto che, pur non avendo un lavoro retribuito, si dedicasse a tempo pieno alla cultura, facendone un lavoro, per quanto precario. Faceva circolare poesia, tra le pietre allora riarse del Salento. Dedicò una mezza pagina del suo giornale, il “Pensionante dei Saraceni”, al casello ferroviario dove io avevo abitato tanti anni prima, le cui pareti erano graffite di poesie. Insomma ci piacemmo e quando misi in cantiere il progetto di Ritorno a San Rocco lui mi propose di scrivere dell’iniziativa, sempre sul “Pensionante”, in cambio di un piccolo contributo economico per la rivista. E così facemmo. Combinai con lui l’incontro con Cesare De Santis, contadino emigrante e poeta, del quale curò la raccolta di poesie Col tempo e con la paglia. Successivamente, fino alla sua morte prematura, nel 1993, ci siamo incontrati più volte e mi ricordo che quando io parlavo dei miei progetti “futuristi” lui prendeva sempre appunti, cosa che mi faceva quasi arrabbiare: “lascia perdere!” dicevo, “ne abbiamo di tempo per approfondire i discorsi”. Ma invece il tempo è mancato: morì in un incidente, anche a causa della sua scassatissima auto. Avrebbero fatto meglio, quelli che gli dedicano monumenti e biblioteche, a dargli spazio, a tempo debito, nel concreto.
Un’ultima domanda, a cui tengo molto: mi puoi raccontare la genesi della canzone Opillopillopì?
La canzone fu ideata da Uccio Caldarazzo, che allora stava in Svizzera. Mi mandò una cassetta su cui aveva inciso questa canzone. La melodia era già conosciuta e usata nella loro famiglia. A noi piacque e la riproponemmo col Circolo popolare di Zollino. Era il nostro cavallo di battaglia che, per la sua semplicità e genuinità, ci conciliava immediatamente le simpatie degli spettatori. Era in dialetto e rifletteva le passioni delle tensioni politiche ed esistenziali della nostra gente all’epoca. Il ritornello Opillopillopì opillopillopà, bisogna pur lottare ma per la libertà era così facile che subito la gente lo cantava in coro. Ed era quasi tutto. Il resto erano piccole strofe di riflessione su difficoltà familiari e sul posto di lavoro, che risultavano immediatamente vere e impattanti. Successivamente conobbi Cici Cafaro che cominciò ad accompagnarci ai concerti recitando poesie sue. Siccome lui ha molta inventiva aggiunse anche delle strofe, come del resto avevo fatto anch’io, e come si è fatto da sempre nella canzone popolare di autore anonimo; io avevo aggiunto delle strofe più politiche: E nun diciti sempre mundu era e mundu ete, se non ni dumandamo in Vietnam ce sta succede, ce sta succede in Cile in Portogallo in Palestina, ce sta succede all’Africa e a tutta l’Indocina eccetera. Erano strofe che raccontavano le vittorie del movimento socialista in giro per il mondo. Ma subito dopo le vittorie si trasformarono in solenni sconfitte, per cui la canzone diventò incantabile… Cici Cafaro però ha continuato a cantarla e poi ha aggiunto altre strofe in seguito, fra cui quella famosa su Berlusconi. Col tempo uscì un libro di Luigi Chiriatti sulla storia della riproposta della canzone popolare salentina nel quale, tra altri grossolani errori, la canzone veniva attribuita a Cici Cafaro e non all’autore vero. Potrebbe sembrare una cosa da poco, tutto sommato, se si fosse trattato di un rigo in una pagina qualsiasi. Ma essendo riportato sulla copertina, addirittura come titolo del libro, dispiacque molto, anche perché lo stile di lavoro e gli obiettivi del mio gruppo e quelli del noto ricercatore erano incompatibili. Erano tempi di grandi passioni, per la verità; ma anche di piccoli sgarbi, di cui si poteva fare a meno.

Hai altro da dirmi?
Certo. Per tutta l’intervista abbiamo parlato di passato; si potrebbe pensare che io sia un operatore culturale dedicato alla riscoperta e “valorizzazione” del passato e delle nostre tradizioni. In realtà sono invece un tecnico, il mio principale interesse non sono le tradizioni popolari, ma le tecnologie popolari: la terra, gli attrezzi agricoli innovativi, le biciclette, il fuoco, quelle che si chiamano con termine più appropriato “tecnologie dolci”. Il mio principale interesse è stato dunque sempre il futuro. Se mi sono occupato di passato nelle tradizioni, nei linguaggi col dialetto e col grico, delle ronde col tamburello, è stato con spirito di supplenza, perché questi valori, come accennato, li vedevo “maltrattati e pasticciati” da operatori culturali che non mi piacevano, da assessori e sindaci in carriera. Se nel ’78 ho fatto la Festa del Fuoco, tre anni prima, nel ’75, avevo ideato e costruito il caminetto vetrato, primo nel mondo, a quel che se ne sa, per riscaldarsi a legna, come in antico, ma anche per risparmiare bruciandola meglio e ridurre le inevitabili emissioni nocive. Se nell’82 ho fatto il San Rocco, proprio in quell’anno avevo portato i miei quaranta alveari sulle montagne della Lucania, a Pietrapertosa, sicché pendolavo periodicamente tra Salento, nella terra e nel laboratorio metalmeccanico; Lucania, con l’apicoltura nomade; poi proseguivo per Roma, per studiare i dettagli del progetto con Menalda Damato che teneva anche i contatti con Carpitella, e viceversa al ritorno. In Lucania poi scoprii un camino particolare, che riprodotto nel mio laboratorio mi ispirò la stufa a nocciolino, brevettata nell’83, che funzionava senza bisogno di meccanismi elettrici, dando la fiamma più economica del mondo: una fiamma che dopo un’ossessione di decenni sta per diventare la più bella e pulita possibile. Potrei continuare con altre novità: chi credi che abbia ideato, trent’anni fa, le “biciclette facilitate” poi goffamente costruite e dette “a pedalata assistita”? Ma mi fermo qui, perché forse queste cose non rientrano nell’economia di questo incontro.
Concludo ribadendo che il mio primo pensiero è il futuro, purtroppo ancora incerto e confuso a livello politico ed economico, nel quale ho preteso di introdurre valori importanti del passato, inopinatamente, ai tempi, avviati all’oblio. “Acqua passata che macina e macinerà ancora, debitamente riciclata”, refocata, direbbe un fabbro. Ora mi sto posizionando a Corigliano, con il progetto di Ritorno alla terra.

FacebookTwitterGoogle+WhatsAppGoogle GmailCondividi