Pizziche e tarante. Il rinascimento della musica popolare nel Salento

croppeddi Vincenzo Santoro

da Insula Europea, 19 settembre 2019

A partire dalla seconda metà degli anni novanta il Salento è gradualmente diventato un luogo di culto per gli amanti delle musiche e delle danze tradizionali. Soprattutto d’estate, questa terra estrema del Sud d’Italia è l’epicentro di un continuo fiorire di iniziative di vario genere, dalle “tipiche” feste di paese ai grandi eventi che attraggono decine di migliaia di persone. Allo sguardo dei tanti turisti che sempre più lo affollano e degli appassionati del genere, il Salento appare come un territorio di forte e orgogliosa conservazione della cultura tradizionale. In realtà questo è vero solo in parte, perché si tratta di un processo culturale di lungo periodo, in cui alcuni aspetti di una “tradizione” ormai scomparsa (o quasi) sono stati ripresi e adattati a forme di consumo culturale contemporaneo. All’analisi di questo fenomeno, le cui caratteristiche principali cercherò di descrivere brevemente in questo articolo, ho dedicato un recente saggio, Rito e passione. Conversazioni intorno alla musica popolare salentina (Alessano, Itinerarti, 2019), a cui rimando per approfondimenti.

I primi tentativi volti a rivitalizzare la musica tradizionale nel Salento si collocano in un arco temporale in cui la memoria viva – documentata nelle pioneristiche campagne di ricerca sul campo condotte a partire dagli anni cinquanta da Alan Lomax, Diego Carpitella ed Ernesto de Martino – è già in uno stato di forte crisi, tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta del secolo scorso, contestualmente all’esplosione della contestazione studentesca: infatti è proprio nell’Ateneo leccese che matura il dibattito intorno alla riproposta della musica di tradizione. Il primo “movimento” salentino si configura come una derivazione provinciale del più vasto e solido folk revival nazionale, di cui ripropone le marcate motivazioni politiche, accentuando una lettura della cultura contadina come “antagonista” rispetto a quella borghese. In questo ambito, il fare musica è vissuto come una forma di impegno sociale, come tentativo di restituire dignità al mondo rurale e alle sue forme espressive, in un progetto complessivo di emancipazione delle classi subalterne. In seguito, con l’arrivo degli anni ottanta, in cui prevalgono altri interessi musicali e culturali, i gruppi localmente attivi, in mancanza di committenze ed attenzione, in gran parte si sciolgono o cambiano decisamente direzione.

È a questo punto che la nostra storia comincia a svilupparsi in modo del tutto imprevedibile ed originale: dopo un lungo periodo di disattenzione e di oblio, riparte nei primi anni novanta un lavorio, prima sotterraneo ma poi sempre più visibile ed esteso, finalizzato alla rivitalizzazione della musica tradizionale, con particolare riferimento alla “pizzica pizzica”, variante locale della “tarantella”, dispositivo musicale carico di storia (sia a livello popolare che a livello colto) e di ancestrali suggestioni. Partita dal basso, per iniziativa di operatori locali e gruppi di base molto determinati, questa azione, rispondendo evidentemente ad esigenze diffuse sul territorio, incontra un consenso sempre più ampio, travalicando anche i confini regionali, grazie ai circuiti alternativi dei centri sociali e delle comunità di studenti universitari salentini fuori-sede disseminate per l’intera Penisola. Recependo in parte le istanze delle generazioni precedenti, ma in una nuova chiave più orientata da dinamiche di rivendicazione identitaria e di valorizzazione delle risorse locali (e potremmo dire anche più ludica), nasce un “movimento” che, salvo rare eccezioni, agisce in autonomia dalle istituzioni (Università ed Enti locali), fino ad allora d’altronde assenti da questo straordinario fermento culturale ed artistico. Alle prime formazioni, che costruiscono spettacoli riproponendo canti e musiche tradizionali, si accompagna un attivismo frenetico e composito, che porta all’organizzazione di feste, concerti, festival. E si sviluppa anche l’altro grande asse del lavoro culturale portato avanti a livello locale: la riflessione teorica sulle radici della tradizione popolare, a partire del tarantismo, potente “marcatore identitario” che, per la sua essenza fascinosa e sconvolgente, da sempre produce un’attrazione irresistibile sui salentini quanto all’esterno, in particolare mutuando l’interpretazione che ne diede de Martino nel suo classico La terra del rimorso (1961). Il volume, ristampato dal Saggiatore nel 1994, diventa un assoluto best seller (arriverà a vendere diverse decine di migliaia di copie), esposto in grande evidenza nelle librerie, come i romanzi degli scrittori di grido, quanto sulle bancarelle delle feste, accanto agli immancabili tamburelli e ai nastrini colorati dei santi patroni.

Si creano così in quegli anni tendenze già precisamente orientate e vivaci, che attraggono sempre di più cultori e appassionati, generando un turismo inedito e curioso, che si afferma come una delle componenti primarie dell’esplosione del Salento vacanziero. Successivamente l’intervento massiccio, sia economico che di governo, delle amministrazioni pubbliche – che arriverà solo verso la fine degli anni novanta, in particolare con l’ideazione e l’organizzazione del mega-festival della Notte della Taranta (evento che prende il nome dal mitico ragno il cui veleno, nella tradizione, dava origine alle crisi a cui si poteva porre rimedio solo attraverso una cura a base di musiche e balli) – farà letteralmente esplodere il fenomeno, non senza averne modificato alcune connotazioni fondamentali, in particolare attenuandone gli aspetti di movimento “di base” e consegnando ad alcuni politici e amministratori locali, gestori delle ingenti risorse pubbliche riversate sul settore, un ruolo sempre più egemonico.

Senza dubbio una delle cause fondamentali del successo ottenuto risiede nella straordinaria diffusione della “pizzica pizzica”, ballo di coppia, praticato in passato prevalentemente dai contadini nei (rari) momenti festivi. Occorre specificare come nella tradizione salentina il ballo “della festa” sia ben distinto da quello della “cura”, collegato al rito del tarantismo, in cui la danza è individuale e connessa a un preciso percorso “terapeutico”. Questa differenza spesso viene dimenticata, incorrendo in frequenti errori di valutazione, forse per la somiglianza della musica di supporto ad entrambi i balli. Bisogna però tenerla a mente per non fare confusione: nella stragrande maggioranza dei casi quella che si osserva oggi nelle piazze (o sui palchi) è la versione contemporanea della danza ludica, nonostante alcune danzatrici interpretino “simulazioni” del “ballo della tarantola”.

La fama della pizzica si avvia rapidamente a travalicare i circuiti degli appassionati, arrivando a sfondare il muro dei mass-media nazionali (con risultati a dire il vero spesso abbastanza discutibili e naïf). Ora, come per la musica, ma in maniera più accentuata, lo slittamento del ballo dai contesti tradizionali ai luoghi di fruizione contemporanei – principalmente le piazze e i palchi dei concerti – ne ha comportato una radicale trasformazione, nei passi e nelle coreografie, ma anche e soprattutto nell’estremizzazione degli aspetti seduttivi e “del corteggiamento”, in particolare per quanto riguarda il ruolo femminile.

D’altra parte, una delle ragioni del grande successo della pizzica, rispetto ad altre danze tradizionali, sta molto probabilmente proprio nel modo così disinvolto con cui è stata “venduta” a un pubblico che, evidentemente, non aspettava altro. Le “modifiche” apportate alla grammatica tradizionale hanno permesso una maggiore adesione del ballo al linguaggio del corpo dei giovani di oggi e non solo, visto che i praticanti sono ormai di tutte le età. Inoltre, l’apparente mancanza di “regole” rigide consente ai neofiti di “entrare nella ronda” (nel cerchio del ballo) in maniera più semplice rispetto ad altre danze e ad altri contesti, più rigorosi proprio perché più integri e quindi più conservativi. Per una sorta di paradosso, forse la pizzica ha avuto diffusa popolarità proprio perché, essendo “morta” nella sua versione tradizionale, è stato più facile costruirne un simulacro “contemporaneo” più praticabile e vendibile. E la diffusione di questo ballo non si è limitata solo al resto d’Italia, dove sono ormai centinaia all’anno i corsi e i laboratori dedicati, ma si è spinta anche all’estero, a volte all’interno di percorsi didattici riferiti all’ambito più complessivo delle “tarantelle”, o in progetti di teatro-danza.

Arrivando agli anni più recenti, nel quadro di un Salento sempre più ambita (e affollata) meta turistica, il movimento musicale ha continuato ad essere al centro delle dinamiche culturali locali, sia per quanto riguarda l’attività di gruppi musicali che alla tradizione si richiamano in vario modo – alcuni dei quali hanno raggiunto una visibilità nazionale e a volte internazionale – sia per il proliferare – soprattutto d’estate, ma non solo – di spettacoli di ogni genere e dimensione. Lo sviluppo di questa salda rete di eventi, sostenuto per larga parte da risorse pubbliche, in particolare provenienti dalla Regione Puglia, ha prodotto però anche degli effetti collaterali. In primo luogo, una saturazione di momenti di spettacolo: una sovrapproduzione di “feste” e festival, grandi e piccoli, che negli ultimi anni, nel periodo estivo, ha comportato seri problemi di gestione e di sostenibilità. Un altro aspetto problematico riguarda il rapporto fra politica locale e attività culturali: chi dirige le istituzioni territoriali e regionali, potendo influire sui flussi di finanziamento, rischia a volte di assumere ruoli impropri e di eccessivo condizionamento rispetto all’organizzazione degli eventi, alla produzione culturale e agli orientamenti delle proposte musicali. Si deve anche osservare che, a fronte del dilagare di momenti spettacolari, si continua invece ad avere grande difficoltà nella attivazione di infrastrutture culturali all’altezza della situazione. E infine, occorre segnalare come si sia acuito il distacco fra la produzione spettacolare e il dibattito culturale, la cui sinergia era stata una delle vere ricchezze del caso salentino.

Intanto però, anche se con meno intensità del recente passato, la produzione di studi e ricerche (e di libri, cd, dvd e altro genere di pubblicazioni) intorno ai vari aspetti del fenomeno è continuata a fiorire, con risultati a volte di grandissimo interesse. Si tratta in generale di prodotti editoriali che trattano questioni storico antropologiche ed etnomusicologiche, oppure di riflessioni sull’attualità del movimento. Infine non va omesso un altro aspetto di certo molto originale: il dilagare dell’immaginario della “taranta” ben oltre il contesto propriamente musicale, investendo ambiti diversi della produzione culturale. Un fenomeno singolare per cui temi, protagonisti e luoghi propri della cultura popolare salentina vengono ripresi, a volte in ruoli secondari o come semplice ispirazione, a volte come protagonisti assoluti, in film, fiction televisive, romanzi, poesie, fumetti, spettacoli teatrali, creazioni di moda e così via. Di fatto il Salento con il suo patrimonio di musica e cultura tradizionali – spesso purtroppo con notevoli semplificazioni, esotismi di varia natura e falsificazioni vere e proprie – è diventato una sorta di “scenario ideale”.

Il “Salento pizzicato” dunque rappresenta, per le ragioni che si è provato a sintetizzare, un laboratorio di grande interesse. Il processo di valorizzazione di una parte importante del “patrimonio immateriale” locale che abbiamo qui descritto, per quanto controverso, oltre a creare “l’unico caso di moda nazionale che origina dalla cultura tradizionale”, come sostiene Alessandro Portelli, ha anche impedito che quell’eredità fosse condannata all’oblio e alla scomparsa, come sembrava dovesse accadere nei decenni passati. Il tarantismo era finito (per fortuna!), il ballo della festa era uscito dall’uso così come la maggior parte delle espressioni tradizionali erano praticamente sparite. Nessuno o quasi ballava più, nessuno suonava (e costruiva) gli oggi onnipresenti tamburelli, e così via. Solo grazie alle composite occasioni di recupero e “ri-funzionalizzazione” finora tracciate è tornato l’interesse per questi temi e si è attivato uno straordinario processo di re-impadronimento collettivo di specifici tratti culturali.

A mio parere, per gli studiosi e gli operatori del settore, oppure più semplicemente per chi ha a cuore l’esito di questa singolare avventura, la sfida che si pone sta nel comprendere come fare in modo – se è ancora possibile, e non è scontato che lo sia – che la deriva mercificatoria non prenda del tutto il sopravvento, per costruire percorsi e spazi di resistenza culturale.

Da questo punto di vista, quanto è successo nei tempi più recenti non lascia troppo spazio all’ottimismo: le dinamiche di spettacolarizzazione sembrano ormai imperanti, in particolare per quanto riguarda il grande evento per eccellenza, la Notte della Taranta, che appare sempre più orientato in direzione dei format da tv commerciale, con il coinvolgimento di personaggi noti ad un esteso pubblico e del tutto avulsi dal contesto (in particolare, per l’edizione 2019, ha colpito la presenza – decisamente ingombrante – della soubrette Belén Rodríguez e del suo compagno Stefano de Martino). Una sorta di “mutazione genetica che ha trasformato il concertone in un Festivalbar a ritmo di pizzica pizzica”, per riportare la severa valutazione di un osservatore attento come Salvatore Esposito, direttore di “BlogFoolk”, “del quale non si sentiva minimamente l’esigenza”.

Il “caso Salento” è dunque interessante, non solo per i salentini, anche perché può essere visto come una declinazione particolare di un quesito più generale, cioè se sia possibile attivare un percorso di valorizzazione dei patrimoni immateriali che ne impedisca la scomparsa e che abbia un’adeguata valenza comunitaria. E che contestualmente funzioni come motivo di sviluppo territoriale, magari nella direzione di un turismo slow attento a dimensioni culturali non consuete, particolarmente prezioso in luoghi lontani dalle grandi direttrici dello “sviluppo”. O forse è inevitabile che processi simili producano la corruzione irreversibile degli stessi patrimoni che si vorrebbero valorizzare? Si tratta, com’è evidente, di una sfida aperta.

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