Storia di Nena, la tarantata
di Sergio Torsello, da Pietre, marzo 1999, p. 8
Aveva settantasei anni, Nena, quando accadde la prima volta. Fino ad allora c’era stato solo il lavoro, il sudore e una fatica immane che anche solo a raccontarla, oggi, sembra inventata. Bracciante avventizia, così la qualifica dell’ufficio di collocamento, Nena lo era diventata per una eredità di famiglia che, agli occhi dei più giovani, appariva sempre più come una colpa: contadino il padre, il nonno e gli zii. E nei campi arroventati dal sole, tra le pietre “solenni” degli antichi Messapi, lavorava anche suo marito. Tutto intorno la vita scorreva lenta: la “rivolta di Tricase” e il “biennio rosso” dell’occupazione delle terre, erano stati gli ultimi bagliori che avevano scaldato il cuore e la mente del mondo contadino. Poi c’era stato l’esodo. Le prime, grandi ondate dell’emigrazione avevano lasciato dietro di sé paesi svuotati, nuovi dolori da sommare ad antiche sofferenze. A fine settimana poi il “salario” era un’altra delusione bruciante: l’equivalente di un pugno di fichi secchi, un tozzo di pane rinsecchito, una banale autorizzazione per continuare ad esistere.
Alle donne, invece, sino a qualche tempo prima, nemmeno quella benevola concessione. Anzi. Con loro si poteva persino vantare un “diritto” non scritto, che nessun codice contemplava: “ius primae noctis”, lo aveva definito con un raffinato eufemismo uno scrittore non esente da pudore. Ai suoi tempi invece, bisognava fare i conti con la brutalità dei “nuovi padroni”: proprietari terrieri, caporali, fattori. Insomma, visto da “dentro”, senza i “lirismi del tempo delle lucciole”, come dice Sandro Viola, il mondo contadino era il “peggiore dei mondi possibili”. Per la gente comune era, più semplicemente, la morale dei vincitori. Di chi, per chissà quale grazia ricevuta, poteva accumulare privilegi, protervia e arroganza. […]
Una sofferenza antica dunque quella di questa terra, più vecchia di Nena, di suo padre e di suo nonno che per primi le avevano parlato della taranta salentina, del Ballo di San Vito, del male di San Donato e di quando San Paolo aveva liberato Alessano da un’invasione di serpenti. Poi un lutto improvviso, la sofferenza indicibile dei genitori che sopravvivono ai figli, schiude per Nena un orizzonte in cui il mito sovrasta la storia. Una semplice coincidenza, forse, comunque molto più di un indizio. Perché tra il sovrapporsi di drammi esistenziali e difficoltà quotidiane, s’incunea con violenza l’insorgere di un male oscuro e insidioso, la “crisi della presenza” direbbero gli antropologi. Per la gente del paese, al contrario, non ci sono dubbi: Nena è una tarantata. È l’estate del ’57, o giù di lì. A Roma Ernesto de Martino preparava la celebre sul campo nella “Terra del Rimorso”. Nena era ignara di tutto questo. Si era alzata presto, come ogni mattina d’estate, per sfuggire alla tirannia del solleone. Doveva accendere il fuoco nel forno, cuocere il pane, prima di cominciare un’altra “normale” giornata di lavoro. All’improvviso – racconterà più tardi – una fitta lancinante alla mano sinistra come la puntura di un grosso spillo, l’aveva riportata indietro nel tempo a settant’anni prima. Si rivide bambina quando aiutava i genitori ad infilzare con un grande ago preziose foglie di tabacco. Ma stavolta non era la stessa cosa.
I segni sulla pelle, o forse sulla sua fragile psiche, diedero un altro responso: la taranta che “morde e rimorde” aveva fatto irruzione nella sua vita. E da quel giorno, periodicamente, sentì una voglia irresistibile di ballare. Istintiva. Inspiegabile. La sua odissea, o meglio, il suo stato di agitazione “senza orizzonte”, cominciava qualche giorno prima del 29 giugno, la festa di S. Paolo, il solo capace di scendere a patti col ragno, lui che aveva dominato la vipera biblica, e poteva liberarla dal “rimorso” del ragno che opprime col suo mitico rigurgito. Girava di casa in casa, Nena, ad amici e parenti chiedeva i “fiureddhi”, una specie di malva spontanea dal forte potere sedativo, la sola cosa che riuscisse a regalarle qualche sollievo. Poi tornava a casa, si chiudeva in una stanza e cominciava a ballare. Qualche anziano del paese ricorda ancora, con timore e rispetto, l’incredibile scena, che sembra rubata alle atmosfere terse di alcune tele di Luigi Caiuli, di una donna non più giovane, dall’andamento sincopato, che tuttavia riusciva a passare con disinvoltura tra i pali e le gambe delle sedie. Era una danza strana la sua, senza musica, senza melodie o suonatori; si accompagnava ad un canto disperato e apparentemente senza fine, una sorta di giaculatoria ipnotica
mesciu de ballu meu mesciu de ballu
cu pozzi scecare
nu vidi la palò
nu vidi la paloma comu vola
mesciu de ballu meu mesciu de ballu
portame a tempu cu nu me cascia la rosa de pettu
Quiri ca passa moi, quiru ca passa moi è nu galantommu
cu lu sigaru an mucca se ne vene
mesciu de ballu meu mesciu de ballu
portame a tempu cu nu me cascia la rosa de pettu.
Duravano ore e ore, a volte giorni interi queste sedute di “terapia”. E alla fine, quando la taranta aveva finalmente ceduto le armi, si doveva partire alle volte di Galatina. Voleva andarci sola, Nena, senza nessuno che frugasse nel suo personale, intimo dialogo con l’apostolo di Tarso. Arrivarsi non era un problema. Luigi Corvaglia ha descritto con dovizia di particolari nel suo romanzo “storico” Finibusterrae le carovane di vittime della tarantola che la notte del 28 giugno partivano dal Capo di Leuca dirette a Galatina. E Nena conosceva bene la “via misteriosa”, gli antichi percorsi dei pellegrini che s’inerpicano sulle ultime propaggini delle serre salentine dal santuario mariano di Leuca alla chiesa della Madonna della Scala a Supersano. Sapeva come intercettarli.
Saltava su un carretto a caso, senza dire una parola, testimone muta di quella che Verdesca Zain ha definito “l’ancestrale regalità della terra”. Lo fece ogni anno, fino alla morte avvenuta conque anni dopo all’età di ottantuno anni. Nessuno seppe mai nulla delle sue giornate a Galatina, proprio nello stesso periodo in cui si registra il “pellegrinaggio antropologico” di E. de Martino. Intervistò diverse tarantate, l’etnologo napoletano, e le chiamò con altri nomi, preoccupato di sottrarle ad ulteriori violenze. Solo Maria di Nardò, “eroina della terra del rimorso”, come dice Lapassade, e Anna di Ruffano, protagonista delle “Lettere da una tarantata” di Annabella Rossi, godettero in seguito di una qualche “notorietà”. Le altre, Immacolata di Taviano, Peppina di Nardò, Carmela di San Pietro Vernotico, Rita di Alezio, e chissà anche Nena (un altro nome inventato)*, furono risucchiate quasi subito negli abissi di un’anonima subalternità. Comunque sia di lei, oggi, non resta più nulla: ma queste scarne note biografiche, il ricordo sfumato degli anziani, il frammento di un canto, sono in ogni caso un interessante documento etnografico (per l’età avanzata di insorgenza della crisi, una rarità nella letteratura tarantolare, per le modalità stesse di esplicazione dell’esorcismo domiciliare e per la presenza di un’erba strettamente collegata allo scenario magico rituale) da indagare con un tentativo di interrompere il tempo storico e accedere ad uno spazio liberato che è anche, per così dire, una possibile e commovente idea di salvezza.
* il vero nome di “nena” era Rosa, ndr
In foto un dettaglio della pala d’altare della Cappella di San Paolo a Galatina, opera di Saverio Lillo
Una ampia selezione di scritti di Sergio Torsello, pubblicata con il consenso dell’autore, si può leggere cliccando qui