Diffidate degli stereotipi sull’arretratezza, Specchia è un modello di turismo slow

21371067_10155670271320349_2501518577586190541_nL’incanto del borgo e i vecchi stereotipi 

di Vincenzo Santoro, da Repubblica (ed. pugliese) del 15 settembre 2017

Seguendo mercoledì in tv le concitate cronache sulla tristissima vicenda dell’omicidio di Noemi Durini, nello sgomento e nel dolore per la perdita insensata e irrimediabile di una giovane vita, non potevo fare a meno di pensare che mai era stato così straziante vedere quelle mirabili campagne di terra rossa, olivi e muretti di pietre antiche, quella luce particolare di settembre, i paesini incantati, sentire la sapida parlata dal dolce accento capuano.

È forte la sensazione di straniamento nel vedere trasformare quei luoghi così rappresentativi dell’immagine di un certo Salento ‘antico’, tanto apprezzato negli ultimi anni, in uno scenario per un episodio così terribile.

Quel lembo estremo del leccese di cui si parla infatti, che è proprio il ‘Capo di Leuca’, è stato capace, nella crescita impetuosa dell’immagine turistica del territorio salentino, di proporsi come luogo peculiare, molto apprezzato da visitatori più sensibili alle ricchezze storico-culturali che al divertimentificio estivo. In particolare Specchia, il comune di origine della povera Noemi, è riuscito a diventare, nel corso di due decenni, una delle mete turistiche alternative più importanti della Puglia, valorizzando il suo straordinario nucleo storico fino ad entrare nell’esclusivo club dei Borghi più belli d’Italia, e inoltre offrendosi come contesto per iniziative culturali e festival raffinati e di respiro lungo. Un caso quasi da manuale di come si possa creare sviluppo di qualità promuovendo il turismo senza svendersi, che ha progressivamente coinvolto anche gli altri meravigliosi paesi dei dintorni. E sempre in quei territori, una imprenditoria lungimirante ha recuperato antiche masserie e dimore storiche per farne luoghi di un’ospitalità slow e molto attenta ai valori ambientali e delle tipicità locali, creando un’offerta che ha attratto una clientela vasta e qualificata.

Un modello che certo non è scevro da problemi (ad esempio l’incapacità di porre il freno al consumo di suolo, che sta erodendo proprio quei valori territoriali che sono la maggiore ricchezza), ma che ha consentito alle comunità locali di difendersi, per quanto possibile, dalla grande crisi economica, e di guardare con un minimo di speranza al futuro.

Ora la straziante tragedia che si è consumata nei giorni scorsi, ci dice anche dei notevoli problemi sociali che affliggono questi paesi, a partire dalla difficoltà della rete dei presidi istituzionali di prendersi cura delle persone deboli e di difenderle quando è necessario – in particolare per le violenze sulle donne, che continuano a ripetersi con inquietante e inaccettabile frequenza. Su questo occorrerà che le istituzioni e la società civile sappiano mettere in campo una riflessione adeguata e politiche opportune.

Ma non mi pare accettabile però che un episodio di violenza, per quanto estremo ed efferato, venga utilizzato come pretesto – come mi è sembrato di leggere in certe riflessioni apparse sulla stampa nazionale – per assegnare ad intere comunità caratteristiche di arretratezza, direi quasi “antropologiche”, quando purtroppo è proprio la cronaca nazionale degli ultimi giorni, che riporta casi di violenze e “femminicidi” in ogni parte d’Italia, a smentirli clamorosamente.

 

 

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