di Marino Niola, da Repubblica del 21 marzo 2015
Il tarantismo è finito. Anzi no. Le tarantole pizzicano ancora alla grande. Ma questa volta non mordono più le raccoglitrici di tabacco salentine, stremate dalla fatica, cresciute a fave e cicoria e rimaste impigliate negli ingranaggi di una storia inceppata, di una mobilità sociale negata. Quelle che danzavano la loro ribellione sul ritmo sfrenato della pizzica, cercando di schiacciare con il piede quel ragno immaginario che era il simbolo del loro mal di vivere. Oggi ad essere morse dall’aracne mediterranea sono le nuove generazioni che hanno fatto della taranta un emblema identitario trasversale.
Una nuova patria culturale, come avrebbe detto Ernesto de Martino, fondatore dell’antropologia italiana, di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della scomparsa. Ed è proprio de Martino, all’origine di questo revival. Perché con il suo capolavoro La terra del rimorso (1961) fece del tarantismo l’emblema di un Meridione dell’anima, di un Sud stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione. Il reperto di una perturbante archeologia sociale impressa nei gesti e nei corpi, nelle ossessioni e nelle devozioni di un mondo solo apparentemente arcaico e lontano dalle grandi direttrici dello sviluppo che, in quegli anni, rivoltava il paese come un guanto. Mentre in realtà quella scheggia dionisiaca era l’altra faccia del miracolo economico. Perché Rocco e i suoi fratelli, che erano andati ad avvitare bulloni nelle fabbriche del Nord, avevano lasciato al paese le sorelle. Che continuavano a ballare in trance, come menadi disoccupate.
Come accade ai grandi classici, il libro di de Martino da allora ha continuato a scriversi, dando origine a una nuova stagione culturale e politica che dalla metà degli anni Novanta ha rovesciato in positivo l’ombra nera del ragno. Da zavorra del passato a risorsa per il futuro, da relitto folklorico a prodotto tipico, bene culturale. Lo racconta Giovanni Pizza, antropologo dell’università di Perugia, in un bel libro in uscita da Carocci. Titolo, Il tarantismo oggi. Una sorta di making of di quella fabbrica collettiva che in questi anni ha rispolverato la tradizione della taranta ballerina facendone un’icona glocal, un brand ad alta definizione da vendere sul mercato globale delle differenze culturali. E perfino un mito politico. Non a caso il ragno è diventato il leitmotif di una produzione artistica, letteraria, cinematografica, musicale, teatrale. Nel 1994 un regista come Edoardo Winspeare gira Pizzicata, un film liberamente ispirato a La terra del rimorso. Che proprio allora viene ristampata, dopo diciotto anni di assenza in libreria, e sull’onda travolgente del neo-tarantismo diventa, per la prima volta, un bestseller. La Bibbia del tarantismo. L’editoria locale comincia a sfornare a ripetizione libri con storie di tarantolati, veri o presunti, che si vendono perfino nelle tabaccherie di paese.
Ovviamente in questo revival la musica fa la parte del leone, con gruppi come il Canzoniere Grecanico-Salentino e i Sud Sound System, che traducono il mood della pizzica in world music. Anche perché sin dai tempi antichi la cura del morso, l’antidotum tarantulae, è fatta di ritmo e di danza. Sono secoli che il frenetico ballo delle donne possedute dal ragno — quello che Paracelso, il grande medico e filosofo rinascimentale, chiamava Lasciva Chorea, cioè ballo licenzioso — è un topos dell’immaginario colto di tutta Europa. Tanto che un personaggio come Giovanbattista Marino, simbolo della letteratura barocca, dedica sonetti da antropologo ante litteram alle crisi frenetiche dei tarantolati. E un altro grande secentista, il funambolico Giacomo Lubrano, nel poemetto Stravaganza velenosa della tarantola descrive con precisione da etnografo il doppio pizzico del ragno, che è il vero algoritmo del tarantismo. Il primo morso, che provoca la crisi iniziatica e poi il rimorso, che arriva puntuale ogni anno il 29 giugno, giorno di san Paolo, che delle tarantole è considerato il signore e padrone, il mandante e il guaritore.
Ma il primo in assoluto a fare dell’aracnide il logo della Puglia è il grande Cesare Ripa, a fine Cinquecento, quando nella sua Iconologia — uno dei libri più venduti e influenti del tempo — raffigura il tacco d’Italia come una bella donna che danza, vestita di «un sottil velo» costellato di tarantole e ha ai suoi piedi un tamburello, insieme ad altri strumenti che oggi chiameremmo musicoterapici. In fondo questo grande costruttore di immagini e di immaginari inaugura quella “tarantolizzazione” dell’identità pugliese che oggi i politici e gli amministratori locali trasformano in uno strumento di marketing territoriale. Simbolo del riscatto di un Sud che non vuole diventare la brutta copia del Nord e che sceglie di guardare dentro di sé per cercare nuovi cammini. E la Notte della taranta, il festival musicale che ogni anno richiama centinaia di migliaia di appassionati a Melpignano e in altri paesi salentini, è la sintesi esemplare di questa fitta rete di strategie economiche, di narrazioni identitarie, di processi di patrimonializzazione che nascono ancora una volta da quel morso.
Un’inversione della tradizione, che sta facendo del Salento una delle aree più interessanti e innovative d’Italia. A riprova del fatto che il cantiere d’idee aperto da de Martino, ed esplorato ora da Giovanni Pizza, continua a essere un laboratorio culturale anche visto da fuori. Come dire che siamo tutti tarantolati.