San Rocco di Torrepaduli nel mondo contadino del Salento

Brizio Montinaro racconta l’antica festa

di Vincenzo Santoro
sanroccoBrizio Montinaro, salentino di Calimera, ma ormai da tanti anni residente a Roma, lavora come attore per il teatro, il cinema e la televisione. Nel corso degli anni ha anche svolto delle importanti ricerche sulla cultura popolare, salentina e non, da cui sono state tratte una serie di raffinate pubblicazioni.

Montinaro in particolare frequenta la festa di San Rocco a Torrepaduli per ragioni personali e di studio dalla fine degli anni Quaranta del Novecento. In questa intervista, tratta da una conversazione più ampia pubblicata su Melissi n. 12/13, luglio 2006, con il titolo La ricerca del Salento perduto, ci offre un prezioso e affascinante racconto di questa sua esperienza, che ci permette di recuperare la memoria reale di una delle feste più importanti del Salento (e in particolare l’unica caratterizzata dalla presenza forte di una tradizione musicale e coreutica, a cui viene dato il nome di danza scherma).



Tu sei un testimone importante e non voglio lasciarmi sfuggire questa occasione per sapere cosa veramente accadeva. Per cominciare: come è nato il tuo interesse per la festa di San Rocco?

Con questa tua domanda mi scaraventi indietro con la memoria a più di cinquant’anni fa. A quando ero bambino. Infatti, per vicende personali come ti ho detto, frequento il santuario di san Rocco dal 1948. Da allora ci sono andato tutti gli anni, tranne uno. Sembra impossibile ma è così. E quasi sempre sono andato proprio nei giorni della festa.



Questo me lo hai già detto. Ma come mai ci sei andato per tutto questo tempo?

Il mistero è presto svelato. A quel tempo, come un male sfuggito dal vaso di Pandora, circolava silenziosa tra la gente una malattia terribile che mieteva vittime a centinaia: il tifo. Io mi ammalai proprio di questa malattia e fui prossimo alla morte. Mi raccontano che un giorno del mio lungo periodo di degenza il medico, dopo aver fatto tutto quello che si poteva e anche di più, amareggiato disse a mia madre: «Signora, perda pure le speranze perché ormai non c’è più nulla da fare, è questione di ore e il bambino muore. Non ha quasi più polso ormai». Avevo quasi cinque anni.

La notizia della mia morte imminente si diffuse subito nel vicinato e da qui corse per il resto del paese. La morte di una persona allora, aveva un senso profondo, religioso, che scuoteva l’intera comunità. Oggi è solo una notizia che si dimentica dopo cinque minuti.

Era la fine di maggio, forse i primi di giugno. Non ricordo. C’era un sole fortissimo. Questo sì lo ricordo con certezza.

Le case dei nostri paesi allora erano quasi tutte uguali. Case povere. Davano tutte sulla strada ed erano composte da una stanza d’ingresso, una camera da letto, la cucina e il bagno, quando c’era. Altrimenti, separato dal resto dell’abitazione si usava uno stanzino, in fondo al giardino, con un cesso alla turca.

Nella prima stanza troneggiava di solito il letto dei genitori. Tutti i figli dormivano nella seconda stanza. Io però ero nella prima stanza quando successe il fatto.

La porta di casa aveva gli scuri chiusi ed era accostata a forbice. Una lama di luce penetrava fendendo il buio. Una di quelle lame di sole salentino, terribile e ardentissimo. Ero nel letto, pulito e con le lenzuola bianchissime. Solo, in quella grande stanza buia con la volta a stella che mi stava sempre davanti agli occhi. Mia madre, costretta da mia nonna, era andata di là in cucina a tentare di mangiare qualcosa. Passava le giornate a digiuno, povera donna, accanto al letto. Non si accendeva neanche il focolare.

Quanto segue è quello che “credo” di aver visto. Quello che ricordo.

Era da poco passato mezzogiorno. Avevo sentito suonare le campane.

Dopo giorni e giorni che non parlavo riuscii a chiamare mia madre, facendo una fatica immensa per farmi sentire. Venne correndo, spaventata, perché non sapeva cosa stava accadendo. “Che è successo? Dimmi, figlio mio!” mi disse. Ed io feci questo racconto che ripeto in italiano e non in dialetto come allora: «È venuto San Rocco, mamma. È entrato dal buco della porta. Si è avvicinato al letto, mi ha messo la mano destra sulla testa e mi ha detto: “Da oggi in avanti tu starai bene e dovrai venire ogni anno nella chiesa piccina di Torre”». Mia madre ascoltando questa storia rimane stupefatta, poi chiama urlando mia nonna che si precipita dalla cucina convinta che io ormai stia morendo. Ripeto anche a mia nonna lo stesso racconto. Mi chiedono particolari. Io allora descrivo l’abbigliamento del santo. Dico che aveva una mantellina con una specie di “pagnotta” sul petto: era la conchiglia dei pellegrini. E aveva con sé un cane che stava lì, ai piedi del letto, con un osso in bocca. Puoi immaginare cosa ha potuto scatenare in mia madre e in mia nonna questo racconto. Attratti dalle urla arrivano i vicini di casa. Anch’essi ascoltano il racconto, che io ripetevo sempre con le stesse precise parole, e poi corrono via urlando per le strade sotto un sole abbacinante: «È un miracolo, un miracolo! Brizio ha visto san Rocco!».

In effetti, pochi giorni dopo l’apparizione del Santo ero già in piedi nonostante fossi stato a letto malato per un paio di mesi.

Da quel momento parenti, amici e vicini di casa mi sottoposero a una serie di test. Ricordo che mi facevano scorrere sotto gli occhi una grande quantità di immaginette sacre, alcune somiglianti all’immagine di san Rocco altre no, sperando che io potessi confondermi ed indicare un altro santo invece di quello che avevo visto ma io, in questo passaggio di figurine che mi facevano vedere, individuavo sempre l’immagine di San Rocco. Anche il prete è venuto, mi ha fatto rifare il racconto e poi mi ha sottoposto a trabocchetti vari per farmi cadere in contraddizione, ma niente: io ripetevo il mio racconto sempre con le stesse parole, e riconoscevo tra mille sempre la stessa immagine.

Stando così le cose, arrivata la prima festa, mia madre sentì l’obbligo di portarmi al santuario di San Rocco per ringraziarlo di quanto aveva fatto per me. Per noi.

Questo è quanto. I primi anni ci andai condotto. Dopo, perché “non ci credo ma comunque…” e infine, per i miei interessi di natura storico-antropologica.



Come si arrivava al Santuario?

Allora le strade non erano asfaltate. La guerra era finita da poco. I paesi erano poverissimi. I mezzi di trasporto pubblici non esistevano quasi e comunque non per Torrepaduli. Si arrivava con una grande fatica. A noi il primo anno ci portò uno zio di mia madre che possedeva un’asina con un carretto.

San Rocco a quei tempi era un santo taumaturgo molto amato. Per la sua festa arrivava gente da tutta la Puglia. Anche dalla Basilicata.

In genere noi partivamo il 14 di agosto, al tramonto per evitare il caldo, e arrivavamo a Torrepaduli al sorgere dell’alba del giorno dopo. Mi ricordo in quegli anni, ma anche in quelli appena successivi, la grande quantità di pellegrini che vedevamo passare a piedi da Calimera diretti a Torre prima ancora che noi si partisse per la stessa meta con il carretto di mio zio. Molti erano anche i traini che svolgevano pubblico servizio. Quindi, per rispondere alla tua domanda, si andava soprattutto a piedi o con i carretti. In seguito arrivarono le corriere. E ancora dopo, quando un po’ di benessere era ormai giunto anche da noi, con le automobili pubbliche e private. Ma è un altro racconto.

Una volta partiti con il traino, si stava ore ed ore a viaggiare. Ricordo ancora i canti e i racconti che si facevano per far passare il tempo. Quanto più ci avvicinavamo a Torre tanto più si vedeva gente che camminava ai margini delle strade carica dei propri fagotti. File lunghe e nere. C’era sempre qualcuno che veniva investito, chi si sentiva male, chi si sedeva sui muretti a secco ai margini della via per riposare stremato dalla stanchezza. Tutto questo avveniva di notte, ricordalo. Ad un certo punto, i carretti che provenivano da direzioni diverse convergevano sulla strada che conduceva a Ruffano e camminavano in fila. Avanzavano verso Torrepaduli lentamente, con le lanterne accese sistemate in basso, sotto il carretto, per illuminare la strada. Ricordo che, stravolto dal sonno, con il capo appoggiato nel grembo di mia madre, sentivo i grandi che biascicavano preghiere che non capivo, poi risate. E finalmente, con le prime luci dell’alba, si arrivava a Torrepaduli.



Com’era allora Torrepaduli?

L’immagine che conservo nella memoria è abbastanza diversa da quella di oggi. C’era campagna, solo campagna, con vigneto, tabacco e alberi di fico. In mezzo la chiesetta. Era un santuario di campagna. Isolato. A mezza strada fra Torre e Ruffano.

Si arrivava lì la mattina, ci si sistemava in qualche posto al riparo del sole – gli alberi di fico enormi e fronzuti erano il riparo migliore – e si stava l’intero giorno. La prima cosa da fare era andare a trovare il santo. C’era una folla impressionante. Riuscire a penetrare nella chiesa era un’operazione molto difficile e faticosa, anche perché bisognava stare attenti a non pestare quelli che entravano ginocchioni o strisciavano il pavimento con la lingua. Tutti si dirigevano contemporaneamente verso la statua del santo posata su un fercolo modestamente barocco. Ricordo bene il caldo infernale che c’era all’interno, le spinte, le tantissime candele che bruciavano l’ossigeno. Si moriva dal caldo, non si respirava. Chi sveniva da una parte, chi sveniva dall’altra. Io mi ricordo – e i miei me lo hanno sempre confermato – che il primo anno, appena entrato urlai «Ecco chi mi ha fatto la grazia!», indicando la statua di San Rocco. E tutta la gente si è girata verso di me…

C’era chi offriva al Santo i propri abiti. Bambini venivano denudati dalle madri per regalare i vestiti a san Rocco. Per grazia ricevuta. Io non lo feci perché li avevo offerti a san Brizio, durante una processione fatta apposta a Calimera per questo evento. Processione che giunse fino a casa mia, dove mi spogliarono davanti a tutti e sollevandomi nudo per aria mi esibirono e mi offrirono al santo protettore di Calimera.

Mi ricordo, un altro anno, un busto di gesso offerto al Santo da una donna che era guarita miracolosamente. Altri portavano da donare comuni ex-voto in argento: chi una gamba, chi un cuore, chi una testa e le pareti della chiesa erano piene di questa roba. Un anno un giovane ha donato la stampella perché il santo lo aveva guarito e ormai camminava senza.

La situazione all’interno della chiesa era veramente impressionante. Il senso del sacro quasi tangibile. C’era una fortissima tensione emotiva che spingeva i pellegrini inesorabilmente verso la statua di san Rocco che bisognava raggiungere e toccare. Quindi spinte, litigi. I devoti facevano di tutto pur di arrivare lì e strusciare il fazzoletto sulla statua. Il fazzoletto diventava così l’amuleto che funzionava tutto l’anno, che fungeva da Santo in casa, seguendo una regola classica della magia. Quella del contatto. Nel comportamento quasi isterico dei fedeli grondanti sudore e lacrime c’era una grande dose di paganesimo. Finalmente arrivati davanti alla statua del Santo gli si offriva il pesante fardello della sofferenza, della fatica del viaggio e silenziosamente si chiedeva una grazia o si ringraziava per la grazia ricevuta. In generale si chiedeva di stare bene, ma fisicamente. Non c’era nulla di trascendentale nelle richieste. L’unica cosa che si poteva donare al Santo in cambio dei propri desiderata era la fatica fatta per andarlo a trovare. La sofferenza: uno dei valori fondamentali del pellegrinaggio antico. Oggi questo non esiste più.



Poi la sera usciva la processione…

Sì, portato a termine il saluto a san Rocco e ascoltata la messa, usciva la processione. Sì, chiamiamola così, in realtà quella che si chiamava processione non aveva alcuna struttura. Annunciata dal suono delle campane e da qualche colpo secco appariva d’un tratto sulle spalle dei fedeli la statua di san Rocco. Ricordo i visi dei devoti ammassati nel piazzale davanti all’uscita del Santo. Facce mai più viste da nessuna parte. Contadine e contadini con i visi solcati da profonde rughe bruciate dal sole che fissavano la statua che avanzava caracollando tra la folla. Gli occhi lucidi, sofferenti. Poi la massa informe si apriva in due ali disordinate che si avviavano nella strada che dal santuario porta a Torrepaduli. Camminavano un po’ alla rinfusa biascicando qualche preghiera o accennando a un canto liturgico. Ricordo il suono stridente di un megafono entro il quale qualche seminarista urlava brani di preghiere o annunciava lo smarrimento di qualche bambino. Marce eseguite da una banda scalcinata. E intanto il Santo avanzava trionfante bloccato a ogni decina di metri da emigranti devoti che appendevano dollari, marchi o franchi su nastri colorati o li depositavano in cesti di vimini oppure fermato da un gruppo di giovani, che forniti di tamburelli, gli offrivano una suonata. Ricordo la statua del Santo coperta di denaro e ricordo anche cuscini di velluto neri, sistemati sulla facciata del santuario, dove tutti potevano metter soldi. Ma i soldi li si poteva depositare anche in una sacrestia annessa al santuario, dove si segnavano le messe per i vivi e i defunti. Le offerte… C’era un commercio pazzesco. Ma tu lo sai che a metà anni settanta il giro d’affari del Santuario della Madonna di Pompei superava quello dell’Alitalia?

Tuttavia la partecipazione della gente era molto commovente. La festa di san Rocco non era quello che si pensa oggi quando si pronuncia la parola festa. Era, come tutte le feste nei santuari, una dramma quasi, piena di sofferenza ma anche di liberazione. Si andava lì perché si stava male, e si implorava di stare bene. Concretamente. Su tutto questo grumo di sentimenti forti dominava la speranza: l’inganno di un anno. E poi il ritorno l’anno successivo.

La processione, tra una sosta e l’altra, giungeva in paese e si snodava con un percorso rituale, prestabilito, lungo le tortuose e strette vie di Torre. Le case venivano aperte, illuminate per il passaggio del Santo. Le stanze così esposte apparivano pulitissime, linde. Troneggiavano lettoni enormi in ghisa e madreperla: liberty. Quando poi la via si restringeva e la gente si accalcava strusciando quasi lungo i muri si poteva anche sentire il profumo degli interni. Il profumo del basilico. Della cedrina. I colori delle dalie e delle zinie risplendevano nei portafiori. Poi col passare del tempo tutto questo si trasformò. Gli interni delle case cambiarono. Non c’era più il letto di ghisa con la madreperla. Al suo posto mostravano uno squallore pretenzioso letti di legno con incastonati nella testiera specchi a forma di ventaglio. Sedie con alte spalliere, quasi troni, la cui finta pelle era ricoperta per protezione col cellofan. Scomparvero i vasi di terracotta. Vennero sostituiti da quelli di plastica. La plastica e l’alluminio anodizzato col passare degli anni spuntarono un po’ dappertutto.

Cambiò anche il modo di vestire. Soprattutto delle donne. Prima dignitose contadine, con vestiti semplici confezionati da sartine del luogo, poi giovani alla moda con tristi abiti di pessima qualità ad imitazione di quelli ammirati sulle riviste che potevano trovare dal parrucchiere.

Al santuario di san Rocco di Torrepaduli si poteva ritrovare della gente che altrove non si riusciva più a vedere. Avevano tutti uno stesso stigma che li distingueva. Quelle facce le si poteva osservare solo lì, venute fuori da chissà dove.

Quello che ora sto raccontando avveniva nei primi anni della mia frequentazione. Diciamo fino alla fine degli anni sessanta. Poi, come le cose, cambiarono pure le persone.

Nella prima metà degli anni settanta, quando scrissi il saggio per Salento Povero, i contadini cominciarono a credere sempre meno ai santi e sempre più ai medici. Spostarono la loro fede verso la scienza, presero i “treni della speranza” e partirono per essere ricevuti dai luminari della medicina a Roma, a Parma o a Milano. Luminari che potessero salvarli dai loro mali. E compivano così un altro rito – diverso da quello di prima – ma sempre rito. Parallelamente, in una sorta di dissolvenza incrociata, arrivava al santuario una classe nuova, non più di contadini ma di impiegati e professionisti che, perduta la fiducia nella scienza, si rivolgevano di nuovo all’irrazionale, al magico, al divino. Prima questo tipo di persone non si sarebbero neanche avvicinate ad un santuario, non gli interessava. Poi ci fu questo cambiamento. Non riguardava solo il santuario di Torre, ovviamente, ma un po’ tutti i santuari d’Italia. Io rilevai questo cambiamento, anzi fui uno dei primi a farlo, e ne parlai nel mio Salento povero. Ma questo te l’ho già raccontato.



Come si passava la notte tra la vigilia e il giorno della festa?

Conclusa la processione con il trasferimento della statua di san Rocco dal santuario alla chiesa madre di Torre c’erano varie possibilità. La mia famiglia per esempio, come molti altri, si affrettava a raggiungere il proprio carretto e partire prima che si creasse grande confusione. Per tornare a casa si viaggiava di nuovo di notte. I traini procedevano lentamente, in una lunga fila, uno dietro l’altro. Poco dopo la partenza però ci si fermava perché venivano sparati i fuochi d’artificio. Tutti si fermavano a guardarli. Era una cosa fantastica! Finiti i fuochi si riprendeva il viaggio.

Altre persone invece non partivano come noi, si sistemavano intorno al santuario e dormivano nelle campagne, sotto gli alberi. Alcuni si mettevano addossati attorno ai muri della chiesa, altri addirittura dentro, in attesa che durante il sonno arrivasse il Santo a fare la grazia. Esattamente come accadeva nell’incubatio degli antichi. Coloro che decidevano di fermarsi, prima di andare a dormire, suonavano, cantavano, ballavano e mangiavano. Il cibo! Anche questo è un elemento importante in un pellegrinaggio. I primi tempi non si trovava cibo da comprare sul posto. Bisognava portarlo da casa. Poi, con gli anni, sono stati aperti luoghi di ristoro, con carne arrosto e pezzetti.

La consumazione del cibo, in qualche modo, era un fatto rituale. Non potevano mancare tra le cose da mangiare, per esempio, i sedani. Era una festa di poveri.

La mattina del 16 c’era il mercato dove si vendevano animali, attrezzi agricoli, frutta, mostaccioli, fischietti di creta e inoltre – la vera devozione – nastri colorati e ventagli di foggia rinascimentale con su stampate le immagini di san Rocco.



Hai ricordi delle ronde di tamburelli davanti al santuario?

Sì. Ma non nei primi anni di cui racconto. Apparvero verso la fine degli anni sessanta. Prima, durante la notte, ricordo solo che in più luoghi vi erano comitive che cantavano e suonavano i tamburelli, così per passare il tempo. Dopo invece, negli anni successivi, ricordo che si cominciò a formare una ressa di fronte alla cappella intorno a due uomini che accennavano una specie di pantomima al suono scatenato di tamburelli. Era gente del Capo, dall’accento. Sembrava volessero fare una schermaglia con in mano immaginari coltelli. Nel mio saggio ne parlai avanzando malauguratamente l’ipotesi che si potesse trattare di una specie di danza delle spade. Lo misi in tono dubitativo perché non avevo gli strumenti per affermarlo con certezza. La postura di chi partecipava a questa sorta di danze era in qualche modo malavitosa, sfrontata, da bullo. L’atteggiamento era quello della sfida ma per puro divertimento. Sì, si formava un cerchio di persone e questi si esibivano nel mezzo, al ritmo frenetico dei tamburelli.



Gli anziani la chiamano “scherma”…

Allora, a mia memoria, nessuno la chiamava in alcun modo.

Anzi bisognava stare alla larga. Neanche Annabella Rossi che aveva a lungo frequentato il santuario – che io sappia – si è mai espressa con certezza sull’argomento. Immagino dove voglia portarmi la tua domanda ma io, su questo punto, vorrei essere molto chiaro. Il santuario di San Rocco a Torrepaduli allora era semplicemente un santuario dove la gente si recava, seguendo un comportamento rituale, a chiedere grazie o a ringraziare per quelle ricevute. Non esisteva altra realtà. Era uno dei tanti santuari dedicati ad un taumaturgo sparsi per le contrade d’Italia. Era un luogo dedicato esclusivamente all’esperienza religiosa. Non si andava per motivi musicali. Per esibirsi in danze e in musiche. Chi allora suonava e ballava era la stessa persona che pregava e supplicava il Santo. La musica era presente, ma non era un aspetto rituale, strutturale della festa. Non aveva alcun significato specifico. La pantomima di cui abbiamo parlato era un fatto secondario, un modo per divertirsi, per passare il tempo in attesa del giorno dopo. Non aveva attinenza con gli aspetti religiosi. Con il Santo non c’entrava nulla. Si faceva di notte, dopo che tutto il rito religioso era ormai compiuto. Lo sviluppo abnorme di questo particolare è una cosa recente e avulsa dalla realtà del santuario. È un’escrescenza. Uno svolazzo della fantasia. Una di quelle bizzarrie che si vuole assolutamente inserire in una sfera di natura sacra, di cui il Salento si è riempito in questi ultimi anni. Fino alla nausea.

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