Uccio Aloisi e i quattordici colori della terra

uccio-aloisi-bI quattordici colori della terra

di Alessandro Portelli

 

prefazione al volume I colori della terra. Canti e racconti di un musicista popolare, a cura di Roberto Raheli, Vincenzo Santoro e Sergio Torsello, libro con due CD audio, edizioni Aramirè, Lecce 2004

 

Si dice che gli eschimesi hanno trenta nomi diversi per la neve. Uccio Aloisi ha quattordici nomi diversi per nominare la terra: per la “carne venduta” che la terra la apre con la zappa e la scava nelle cave di tufo, la terra è molteplice e dai suoi colori dipende la vita. Per questo, bisogna imparare a vederli, e saperli nominare: terra nera, nera pignatara, petruddharu, chianca, pilumafu, crita arenusa, crita bona, crita turchina, cuzzaru, sapunaru, crugnu, tufu neru, tufu russu, petra bianca

Sapere i colori e i nomi della terra è necessario anche perché, dice Uccio Aloisi, “ognuno forma il diario in base a quanto nasce sulla faccia della terra”. Uccio Aloisi ha avuto una vita lunga, intensa e non facile, ed è diventato una figura di culto in tarda età per un pubblico fatto in maggioranza da ragazzi. È stata la riscoperta della pizzica, con quel tanto di moda che si è accompagnato, a portarlo alla ribalta – e giustamente, non solo perché è un grande artista e una voce straordinaria (il suo disco con Uccio Bandello, Buonasera a quista casa, è il più bel disco di musica popolare che io conosca), ma perché dentro questa voce c’è la grana e la storia di un mondo del quale la pizzica è solo una delle espressioni, e non necessariamente la più significativa. “La musica è nata attraverso la guerra”, continua Uccio Aloisi, “pecché la musica è nata attraverso la guerra, attraverso il lavoro, attraverso la discussione”.

Attraverso la discussione. la prima cosa che colpisce in questa autobiografia parlata e cantata è la sua lingua – scrupolosamente trascritta e intelligentemente tradotta, ma solo per aiutarci a capirne il suono attraverso la registrazione sul CD. In questa voce c’è musica anche quando non canta; le intonazioni, i tempi, i volumi, le pause, portano tanto senso quanto le parole, e affascinano all’ascolto di per se stesse oltre che per quello che dicono. Ascoltare Uccio Aloisi basterebbe per rifiutare una volta per tutte l’idea che il dialetto sia una lingua minore, rozza, povera, “semplice”. Il suo dialetto per Aloisi è una lingua ricchissima e composita, con un lessico ampio e un repertorio di formule e di espressioni flessibile ed articolato – penso alla precisione dei termini tecnici che nella lingua dei cittadini di oggi (“alli tempi nosci s’ha perso tuttu”, dice l’intervistatore) finiscono tutti sotto un’unica vaga idea di qualcosa di estraneo – “zappare”. E invece qui l’operazione come i colori della terra, si suddivide: scatinare, zappare, ntrafare, nsurchiare, antajare… “le tre, quatto manere de faticare u la zappa”, un mestiere che non è solo fatica fisica ma anche competenza, conoscenza. Per forza che poi non ha problemi a distinguere e nominare i tipi di stornelli, i rapporti fra le voci, il senso dei canti e delle feste…

La zappa è da sempre contraposta alla scuola – va’ a zappare, dicevano i maestri di un tempo agli scolari riottosi. Nel caso di Uccio Aloisi, figlio di zappatori, questa non è una metafora: bocciato tre volte in terza elementare, finisce presto l’”esilio con la maestra”; a undici anni sta per la strada a raccogliere il letame e a quattordici anni, infanzia finita, “scìa cu zappu cu l’ommani”. È una storia a suo modo esemplare della nostra scuola di classe, perché ora che lo conosciamo sappiamo che tutto si potrà dire, ma non che Uccio Aloisi non fosse abbastanza intelligente da superare la terza elementare. “Anche nella povertà esiste l’intelligenza”, constata sorpreso un maestro di musica dopo una discussione con lui sull’opera lirica; ma è un’intelligenza di un altro mondo, che usa un’altra lingua che la maestra non era abbastanza intelligente, abbastanza colta da capire Questo è un tema che ritorna: l’educazione vince il paradiso, è gentile non chi si chiama gentile ma chi fa atti gentili… “Chi non la risente la musica nu tene mancu cervellu”, dice Uccio Aloisi: la musica, insomma, è fatta di “sentire” (l’orecchio e il sentimento), ma è fatta anche di intelligenza e di pensiero (il cervello).

“Cu leggu sacciu, però se t’aggiu spiegare ci aggiu lettu no capiscu… però cu scrivu nu sacciu, sacciu appena lu nome miu”… Tecnicamente, cosa di cui non si rendono conto i ragazzi alternativi che gli chiedono l’autografo, Uccio Aloisi è analfabeta. Ma è bene che ci ricordiamo che la categoria di “analfabeta” non esiste nelle culture orali; è un prodotto della scrittura. Per definizione, non esistono analfabeti nelle culture orali, perché nessuno è definito in base alla privazioni di qualcosa che nessuno possiede, che non esiste nemmeno. È con l’arrivo della scrittura, della scuola, che il mondo si divide fra letterati e illetterati, fra istruiti e “ignoranti”.

Ora, Uccio Aloisi è un esempio straordinario di resistenza a questa spartizione: non è istruito, ma è sapiente lo stesso. All’esclusione e allo stigma che dovrebbe comportare l’analfabetismo risponde con la dignità, il potere, il sapere di una cultura orale – la lingua, i suoni, i canti, le feste, i riti; ma anche il lavoro con le sue tecniche, e la memoria storica (le occupazioni delle terre, con l’offesa più grave da parte delle forze della repressione: la distruzione delle biciclette). È una sapienza che non è diversa solo per contenuto, ma anche per modo: più che dell’esito di un apprendimento, si tratta soprattutto di un’appartenenza. Il lavoro si impara guardando gli altri lavorare e lavorandoci insieme, magari “rubando” il mestiere; le canzoni si imparano ascoltando e cantando insieme. È raro che qualcuno si metta formalmente a insegnare qualcosa: si fa insieme, ci si cresce dentro. Per questo, il sapere di Uccio Aloisi è soprattutto un’appartenenza, un’identità.

Il che non vuol dire starci chiuso dentro: le culture orali sono per definizione eclettiche, fatte sia di un nucleo identitario, sia di frammenti presi al volo da tutte le parti. Facciamo caso, ancora, alla lingua: Uccio Aloisi palra in dialetto ma canta spesso in lingua, nell’italiano fiorito delle opere e di certe canzonette. Ammira Pavarotti (e si sente, nei tentativi di acuto finale in certe sue performance), nel suo repertorio ci sono arie liriche, stornelli romaneschi, ballate padane (Le tre sorelle), canzoni “bianche” del repertorio di guerra, canzoni sentite alla radio. Si appropria di tutta la sfera sonora che lo circonda – e la assimila al nucleo fondante della sua storia e del suo mondo. Anche lo Spirù – un ballo brevemente alla moda di cui non sentivo parlare da mezzo secolo – nelle mani di Uccio Aloisi diventa musica salentina.

Anche la classe, allora, è identità, non ideologia. Uccio Aloisi si sente estraneo alla politica, anche se sa benissimo chi è che mangia i bambini “e puru li grandi!”, e chi è che è stato “tutti na massa de carogni”. Odia i padroni in termini esistenziali: “Ci cazzu saggiava mai lu pane cu li patruni…” Occupa le terre insieme coi comunisti, ma non gli interessa mai diventare comunista o altro; è troppo fuori delle categorie, troppo artista insomma, per interessarsi a un’etichetta, per appartenere a un gruppo. Uccio Aloisi appartiene solo a se stesso, e alle fondazioni della sua cultura.

“Ave fazzu romanzi de quiddi, romanzi…” Per due volte, Uccio Aloisi, analfabeta e sapiente dell’oralità, evoca una delle forme canoniche della cultura scritta, il romanzo. Da una parte, vuol dire che sono storie lunghe e straordinarie; ma su un altro piano rinvia al fatto che i romanzi sono sempre storie di persone, di singoli individui. Il luogo comune – la mia vita è un romanzo – vuol dire anche questo: la mia vita è diversa da tutte le altre. Afferma quel “diritto all’autobiografia” che Luisa Passerini ha identificato come fondamento della storia orale delle classi non egemoni. Ed è “un romanzo”, in questo senso, la vita di Uccio Aloisi, e anche in questo c’è una lezione, culturale e in senso lato politica: anche le culture popolari, anche le culture orali, che vivono della condivisione e della comunità, tuttavia sono fatte di individui, diversi fra loro; e vivono e crescono anche grazie ai contributi personali di individui eccezionali.

Per questo, la musica di Uccio Aloisi reste un’altra cosa anche rispetto a chi impara scrupolosamente a ricantarla; non si tratta solo di come canti e come suoni, si tratta di chi sei. ‘Ci sventurato nasce da le fasse / ce bene pot’avire quannu crisce’, canta Uccio Aloisi. Questa strofa non è tra le preferite degli euforici cantori della neo-pizzica, ma trova echi in tutte le culture contadine del mondo (‘Da piccolo fanciullo incominciai / de non ave’ più bene in vita mia / li fscaiatori dove mi fasciorno / erano pieni di malinconia’, cantava Dante Bartolini in Valnerina; e la sventura che entra nelle fasce è come il blues che entra nel pane in un classico blues di Bestie Smith). Ecco: anche quando canta di festa e di amore, Uccio Aloisi canta la festa e l’amore di gente che ha conosciuto la sventura nelle fasce, e non se l’è dimenticata.

“Sia lode ora a uomini famosi”, dice un versetto della Bibbia. Negli anni ’30, James Agree e Walker Evans ne facevano il titolo, ironico, di un memorabile libro sui braccianti dell’Alabama. Il bracciante, mezzadro, zappatore, cavatore, cantore e poeta Uccio Aloisi, per uno strano gioco del destino è diventato famoso per davvero. Ma non è una buona ragione per smettere di lodarlo.

 

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