Alan Lomax e le registrazioni “sul campo”

di Giordano Montecchi

da www.unita.it del 30 luglio 2010hero-11-alan-lomaxQualche volta c’è una buona notizia. E spesso a procurarcela è la rete, in virtù di quel suo potere… come definirlo? Rivoluzionario? Ok, diciamo «mediaticamente rivoluzionario», capace di sovvertire regole e discriminazioni in materia di informazione, o meglio, di condivisione dell’informazione. E siccome il potere è quello che sa tutto e i sudditi sono quelli che non sanno niente, se la rete continua di questo passo a divulgare tutto, chissà dove andremo a finire.L’ultima riguarda la musica della quale la rete, checché se ne dica, è una grande benefattrice.

La notizia viene dagli Usa: una parte piccola, ma ciononostante imponente dell’archivio di Alan Lomax – per la precisione 400 ore di filmati registrati per la rete televisiva Pbs fra il 1978 e il 1985 – verranno resi pubblici su un apposito canale di Youtube (www.youtube.com/user/AlanLomaxArchive). Già, Alan Lomax… Molti anni fa, in tanti, appassionati di musica, quando andavamo scartabellando per dischi, cercando le cose più preziose del jazz, del blues, del rock, del folk, ebbene, una volta sì e l’altra pure saltava sempre fuori questo nome: Alan Lomax... Alan Lomax. Non era un musicista, né un musicologo, né uno storico della musica, né un produttore nel senso usuale del termine, forse perché era tutte queste cose insieme. Perché Alan Lomax ha passato la vita a registrare e poi a filmare il mondo, il mondo dei diseredati, dei dimenticati, dei carcerati, il mondo delle musiche minacciate di estinzione.

Con un termine oggi troppo abusato si potrebbe definirlo uno «storico orale», cioè uno che invece delle fonti scritte, cerca la gente e ne raccoglie le testimonianze. Lomax registrava e archiviava, e una parte di quelle registrazioni finiva su disco. Non erano dischi molto vendibili. Ma i musicisti, da Miles Davis a Bob Dylan, questi dischi li ascoltavano eccome, e rimanevano folgorati dalla forza prepotente di quelle voci, di quei suoni usciti da chissà dove: terra nera, carni macerate, memorie irremovibili, anime ribelli, canti da mozzare il fiato. Per questo sul retro del disco il grazie a chi aveva fornito quella presiosissima «materia prima» non mancava mai. Difficile dire il valore dell’eredità che Alan Lomax ha consegnato alla storia del XX secolo. Quel che è certo è che questo texano di Austin nato nel 1915 e spentosi nel luglio del 2002, ci lascia una documentazione monumentale, raccolta in quasi settant’anni di attività instancabile. Cominciò nel 1933, a diciotto anni, seguendo il padre, responsabile dell’Archive of Folksongs della Library of Congress. All’epoca i Lomax si portavano dietro qualcosa come duecento chili di attrezzatura che consentiva loro di incidere grandi dischi di alluminio o di acetato capaci di contenere 15 minuti di musica. Negli anni prima della guerra il loro archivio era già una miniera: Leadbelly, Jelly Roll Morton, Memphis Slim, Woody Guthrie, Big Bill Broonzy, McKinley Morganfield divenuto poi celeberrimo come Muddy Waters.

E già iniziavano i ringraziamenti, perché alcuni di questi artisti devono l’avvio della loro ascesa proprio ai Lomax. Prima col padre poi con altri collaboratori, Alan Lomax ha battuto palmo a palmo gli Stati Uniti: tradizioni folkloriche, i canti di lavoro, la musica dei diversi, degli emarginati, ma soprattutto la musica dei neri. Occorreva pazienza, fatica e molto coraggio perché l’ostilità, le minacce e talvolta le violenze in un sud razzista, ancora feudale erano sempre in agguato, perché un «amico dei negri» era (?) visto peggio di un negro. Snobbato dagli etnomusicologi e dai folkloristi per la sua dichiarata solidarietà coi soggetti delle sue ricerche (il folklorista, era solito ripetere, deve farsi avvocato delle culture popolari) Alan Lomax è stato un grande pioniere della diversità culturale come valore da difendere e preservare e nella sua veste un benefattore delle musiche folkloriche di mezzo mondo: Stati Uniti, Caraibi, Inghilterra, Spagna, Urss e anche Italia, dove viaggiò nel 1954–55 con Diego Carpitella registrando una collezione di canti delle diverse regioni di valore – e bellezza – inestimabile.

Non è retorica. Lo dicono i numeri del Lomax Archive acquisito nel 2004 dall’American Folklife Center della Library of Congress: più di 5000 ore di registrazioni audio, 2500 videotapes, circa 120 mila chilometri di pellicola girata, una quarantina di metri di scaffali pieni di appunti e manoscritti vari, oltre a una biblioteca di migliaia di volumi e molta altra documentazione. A tutto questo andrebbe poi aggiunta la sterminata discografia nella quale Lomax ha avuto un ruolo come ricercatore, produttore o consulente scientifico e che allinea centinaia di titoli, 78 giri, long playing, cd. A parte le decine di registrazioni fornite dagli appassionati che già Youtube ospita da anni, ora ci sono i documenti dell’Archivio, queste registrazioni degli anni Ottanta, un’epoca nella quale le mitografie, le epopee eroiche alla Leadbelly o Robert Johnson sono ormai fuori luogo.

Eppure Alan Lomax è il ricercatore, è colui che, appunto, sa cercare e sa trovare. E anche quando l’età dell’oro è tramontata eccolo denudare le radici ancora vive, là dove nessun talent scout, nessun discografico si sarebbe mai avventurato: i sermoni alla St. James Missionary Baptist Church Congregation o il blues di R.L Burnside: sì la chitarra è elettrica ma, sullo sfondo, la povera campagna e il filo spinato dicono che il tempo non è mai trascorso e forse non passerà mai. Questi e altri documenti inestimabili di umanità oggi vanno su Youtube; platea: il mondo. Chissà chi vincerà, se l’umanità o il business.

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