Viaggio a Finibusterrae


Viaggio nei confini della terra d’Otranto
di Antonio Prete
da Liberazione del 18 agosto 2007

 

A Leuca, punta ultima della penisola salentina, c’è, oltre al faro che sventaglia il suo fascio luminoso sullo spartiacque tra lo Jonio e l’Adriatico, un santuario alto sul mare: Santa Maria de finibus terrae.
Se non ci si va almeno una volta da vivi, raccontava mia nonna, si deve andare in ginocchio da morti. Così, da bambino, cercavo, paurosamente, di figurarmi quell’ombroso e postumo trascinarsi per campagne, tra uliveti e vigneti, strisciando lungo muri a secco, alla ricerca di un approdo estremo. Non Finisterrae, come altri leggendari e poetici toponimi, ma Finibusterrae: la forma ablativale è quella che i dialetti salentini e l’immaginazione popolare hanno incorporato. E Viaggio a Finibusterrae. Il Salento fra passioni e confini (Manni, euro 10) si intitola il bel libro che ora Antonio Errico ha dedicato al Salento, alle sue fantasmagorie letterarie, ai suoi incantamenti e alle sue ferite, alla sua storia. Una storia che è come volatilizzata in miti, in dicerie, in credenze, ma anche segnata dal dolore delle partenze e dagli struggimenti della nostalgia. Come in altri libri di Antonio Errico, pubblicati anch’essi da Manni editore – penso a quelli che più mi hanno attratto, come Favolerie, del 1996 e il più recente L’ultima caccia di Federico Re – anche questo libro ha la sua forza nel ritmo del dire. Un ritmo che modula, nel piacere della ripetizione, movimenti propri del raccontare fiabesco, e allo stesso tempo, mentre avvicina la cosa evocata, ne mostra l’alone fantastico, mentre nomina un luogo, un ricordo, una credenza popolare, o cita un poeta, fa vedere come solo l’approssimazione possa dirsi vera forma di conoscenza. E infatti il viaggio nel Salento, nella propria terra, non è che il viaggio dentro le parole, e le forme mentali, e fantasticanti, di una rappresentazione, forse di un’invenzione. Ed è questo per Errico il paese di Finibusterrae: «un costante avvicinarsi ad un luogo di parole che rappresenta la condizione della leggerezza e della profondità, dell’opacità e della rilucenza, dell’epifania e del dissolvimento, dell’immutabilità e della mutevolezza, del mythos e del logos, dell’estremità e del punto di confluenza». Per questo Ernesto de Martino, mentre s’accingeva a interpretare attraverso il rituale della tarantata un’antropologia che univa ferita e musica, dolore e danza, preghiera e desiderio, ricordava che la traccia dell’incubo che qui viene dal mare e che per secoli grava sulle coste è come riflessa nei miraggi: la gente osservava le «mutate di cielo», come volesse scorgere «a specchio nelle nuvole l’avvicinarsi della flotta turca».

Finibusterrae non è solo il Capo di Leuca: è ogni luogo di partenza e di approdo, ogni lingua di terra circondata dal mare. Otranto, Gallipoli, Santa Cesarea, Castro sono Finibusterrae. E’ il confine, lo stare sul confine. Quel particolare Salento che Antonio Errico descrive è anche quello al quale io stesso sento di appartenere e che qualche volta mi è accaduto di raccontare. Un Salento che ha la sua identità in questo guardare altrove mentre si avvertono fortemente le radici: compresenza di lingue e culture che qui abitano da sempre e si sovrappongono e intrecciano e influenzano. Mescolanza di storia e favola, di concretezza e svagamento malinconico. Terra di passaggi. Un Sud che accoglie i riverberi che vengono da altre terre, un Sud che tanto più è fisicamente preso dalla lingua dei corpi quanto più è perso nella fascinazione dell’inesistente, del vuoto, della fantasticheria. E tanto più è funambolico, o bizzarro, tanto più avverte la malinconia del passaggio, e la carnalità del sentire. E’ questo anche il Salento che appare nei versi di Vittorio Bodini. E nella scrittura filmica e teatrale di Carmelo Bene. E’ il Salento compendiato nel barocco particolare della facciata di Santa Croce. Di quel barocco Antonio Errico dice che sembra voglia «figurare l’assoluto», e voglia anche «attribuire visibilità all’invisibile, plasticità all’aria, una densità all’impalpabile».

In questa terra che corteggia l’improbabile, le pagine di Viaggio a Finibusterrae conducono il lettore, facendo ricorso alla mediazione dei poeti e degli scrittori che a questa terra appartengono per nascita o per scelta di scrittura. E il viaggio diventa evocazione, anche se fuggevole, di certi versi, di certe scritture che il Salento hanno interrogato: Girolamo Comi, Maria Corti, Vittorio Pagano, Vittore Fiore, Salvatore Toma, Antonio Verri e altri vanno a comporre, per brevi citazioni e brevissimi richiami, un’altra terra nella quale la prima si riflette: una terra fatta di ritmi, di parole, di immaginazione. Quale delle due è quella vera? Quale il riverbero, e il miraggio?

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