A Venosa la tarantola velenosa

Il dialogo» del lucano V. Bruno

Il morso della tarantola pizzica ormai a fondo nelle piazze e nelle sagre, e fa ballare le folle. Non più per il disagio contadino e il «ri/morso» di una società oppressa; ma per un desiderio tutto moderno di liberarsi con la danza degli affanni della modernità. Dove andrà a finire questa mania che ha resa di nuovo famosa la Puglia, come lo era nei secoli scorsi? Qualcuno storce il naso di fronte a una eccessiva «banalizzazione» del tarantismo, che rischia di far smarrire il senso veritiero di ciò che il morso del ragno significò per la nostra regione. Per fortuna c’è l’Istituto Diego Carpitella, nato per la documentazione e ricerca per le culture popolari, e promotore della «Biblioteca di studi storici sul tarantismo». Insieme all’editore Besa, l’Istituto pubblica contributi storici e antropologici sul tarantismo e riedita documenti antichi, perché meglio sia conosciuto il fenomeno com’era. Come il Dialogo delle tarantole di Vincenzo Bruno, melfitano vissuto a Venosa e a Napoli, città in cui compose questa sua operetta nel 1600. Il Dialogo delle tarantole viene ora ripresentato a cura di Eugenio Imbriani (direttore della suddetta Biblioteca), che traccia il profilo di questo erudito lucano, medico e filosofo, di cui non molto sappiamo (Besa ed., pp. 98, euro 10). Di certo nacque a Melfi, forse nel 1560; nel 1602 pubblicò tre dialoghi, il primo dei quali è il nostro «delle tarantole»; è autore di un altro singolare e curioso libello dal titolo Teatro de gl’inventori di tutte le cose. «Tiruncolo» o «Torbido» si faceva chiamare nelle Accademie arcadiche di cui fece parte a Venosa. Ed è appunto Venosa la cittadina al centro del Dialogo: qui si è verificata una recrudescenza di morsi di tarantole. Ne parlano due dottor filosofi, Pico e Opaco (nomi che indurrebbero a un segreto moto canzonatorio). È Pico l’autorità; Opaco invece si limita a intervistarlo. Sostiene il primo che nel 1596 una cometa apparve nel cielo lucano e si vide per giorni, dal 14 luglio al 2 agosto. Fenomeno celeste infausto, al quale erano seguiti eventi portentosi di ogni genere, tra cui lune di sangue, siccità e terremoti. E anche il risveglio di numerose tarantole che si dettero a mordere qua e là. Padroncini e serve, nobildonne e popolane si dettero a comporre versi, a profetare, ad abbandonarsi a lascivie (un uomo attarantato addirittura si dimenava nelle doglie di un parto e gli dovettero inserire tra le gambe un fantoccino). Tutto ciò, tra una danza e l’altra, tra evoluzioni con spade e spadini, con il corredo di vestiari e ornamenti offerti ai tarantati dai vicini e parenti (e poi restituiti a guarigione avvenuta). Le descrizioni di Pico – che riportano le testimonianze di un Pugliese fededegno – sono tra le prime sul fenomeno del tarantismo. E De Martino ne tiene in debito conto nel suo celebre La terra del rimorso. Dai discorsi di Pico e Opaco, si ricava in realtà la sensazione – come rivela Imbriani – che molti dotti, più che riportare le proprie esperienze, si lasciavano convincere dalle autorità del già detto e del già scritto. E questo è il rimprovero che a metà del ‘700 rivolgerà ai tanti testimoni del tarantismo il napoletano Francesco Serao. In realtà, più che il tarantismo, a Pico e Opaco interessa filosofeggiare di patologia e dei sintomi, interessa crogiolarsi e intricarsi in quella fisiologia degli umori corporei, che oggi ci sembrano teorie incomprensibili e lontane. Tra gli autorevoli Aristotele e Ippocrate, tra Galeno e Avicenna, Oribasio e Averroè… l’erudito Vincenzo Bruno trova il modo di citare se stesso. E la tarantola? Come risanarne? Secondo il Pugliese, «huomo virtuoso», l’unico è il ballare. Ma – a quanto pare – Pico e Opaco non sono dello stesso avviso. Ed ecco esplicitare i rimedi empirici con cui medicare il veleno del ragno, tenendo presenti le sue specificità materiali, ma anche le cause scatenanti celesti. Medicine da capogiro: dal fiele del pipistrello con l’aceto alla cenere dello sterco delle galline impiastrato; ovvero un topo «aperto» posto sul punto del morso… Ed è solo un assaggio.

tratto da La Gazzetta del Mezzogiorno
di Giacomo Annibaldis
pubblicato il 03/03/2006

FacebookTwitterGoogle+WhatsAppGoogle GmailCondividi

Lascia una risposta