Intervista ad Antonio Prete
di Sergio Torsello, in “Controcanto”, n. 2/2006
Da sempre il “mito” della taranta stimola l’immaginario creativo di poeti e scrittori. Basti pensare che già il Berni nel ‘500 dedicava alcuni suoi sonetti alla tarantola di Puglia. Docente di Letteratura comparata all’università di Siena, traduttore, autore di importanti saggi di critica e teoria della letteratura, Antonio Prete, salentino di Copertino (Le), ha dedicato alcuni brevi racconti al tarantismo.
Ne L’Imperfezione della Luna ci sono due brevi racconti dedicati al tarantismo. Memoria,mitografia, immaginario. Cosa sono per Lei il tarantismo e la cultura popolare salentina?
Sono anzitutto un ricordo. Sono le immagini di alcune scene alle quali da bambino m’è accaduto di partecipare. Quelle immagini me le sono portate con me nelle perenigrazioni per città e in mezzo a culture altre: gli studi a Milano, i soggiorni parigini, l’insegnamento nelle università francesi e in quelle di altri paesi. Sono immagini che hanno rappresentato, in un certo senso, il mito dell’infanzia, mescolate con altri elementi. La luce abbagliante, le ombre forti, i traini carichi di uva in coda dinanzi alle cantine sociali, la vita di strada dei bambini finita la guerra, la nonna vestita sempre di nero, gli zii tornati dalla guerra, le tante partenze di emigranti. La ragazza stesa sulla coperta e la musica che la muove, i suoi occhi persi, la sensazione di assistere a un evento che è insieme malattia e rito, tutto questo ha sì rappresentato un elemento della mia terra d’origine, ma accompagnato, e spesso sommerso, da molti altri elementi: voci di personaggi del paese, facciate di chiese, distese di ulivi, scogliere, dune, ragazze bellissime che ti hanno procurato i primi affanni amorosi. L’altrove – le città dove sono vissuto – è molta parte della mia vita, quel “prima” è l’infanzia, l’adolescenza, il prima della partenza.
Se esco dal ricordo, posso rispondere alla domanda cos’è il tarantismo. Ma posso rispondere attraverso i libri, i filmati, i resoconti, le canzoni: materiali di una storia divenuta un po’ memoria un po’ folklore, un po’ narrazione identitaria e un po’ discorso antropologico vulgato e dissipato. La cultura popolare salentina ha un passaggio importante nel fenomeno del tarantismo, ma, come si sa, va oltre, è fatta di storie legate alla povertà, alle migrazioni, ai lavori dei campi, alla vita quotidiana – affabulatoria, funambolesca a tratti, e intensa – dei paesi.
La terra del rimorso viene spesso considerato un testo letterario, un romanzo sulla condizione del Mezzogiorno, più che un’opera di antropologia. Non crede che in questo atteggiamento ci sia il tentativo di sminuire la dimensione innovativa sul piano etnografico, antropologico, metodologico?
Che il saggio di De Martino venga considerato un romanzo non dovrebbe di per sé sminuire il suo significato etnografico e antropologico. Il fatto è che bisognerebbe dire che è allo stesso tempo un bellissimo saggio di antropologia metodologicamente innovativa e un bellissimo racconto, con personaggi, con un paesaggio, con voci e situazioni e ritmi. Le due cose possono convivere. Anzi se convivono, come accade in quel libro, la cosa è un evento particolare. Purtroppo spesso quelli che sottolineano la dimensione letteraria lo fanno forse per svalutare quella antropologica. Ma evidentemente non hanno presente che tra letteratura e antropologia ci può essere uno stretto legame, e la scrittura può passare attraverso qualsiasi disciplina, può muoversi in essa ravvivando e dando forma al pensiero, vigore e stile alla ricerca. De resto anche Levy Strauss, come De Martino, è uno scrittore. Alcuni suoi libri sono opere di letteratura. E questo non sminuisce affatto la dimensione antropologica. Quanto a me, ho amato moltissimo il libro di De Martino, anche sotto il profilo letterario. E quando, rinascendo il Saggiatore, mi è stato chiesto dall’allora direttore editoriale di indicare qualcosa del vecchio catalogo da riprendere, non ho avuto dubbi: La terra del rimorso, che da molto era estinta.
Lei si occupa da tempo del rapporto tra letteratura, etnografia e antropologia. Quale è il ruolo dell’immaginario letterario nella descrizione di luoghi e fenomeni?
La scrittura non ha confini quanto a temi ed ambiti di discorso: tutto sta nello stile, nella dizione, nella voce, nel tono, nel ritmo, insomma nella forma, nella singolarità e necessità di una forma. Direi che alcuni scrittori e alcuni poeti sono etnografi più di altri, cioè descrivono e interpretano culture, pratiche, linguaggi, e si lasciano da questi interpretare e descrivere. Quando Baudelaire descrive Parigi è un etnografo, ed è anche un grande poeta. Per non dire di Swift, di Dickens, di Victor Hugo: l’etnos è la preoccupazione. Poi c’è un’etnografia immaginaria, spesso incrociata con quella reale o da questa mossa: il francese Michaux, per esempio, o da noi Gianni Celati. C’è inoltre la figura dello scrittore che di mestiere è etnologo e antropologo. Per esempio Michel Leiris.
Tarantismo e letteratura: un rapporto antico per il Salento, almeno a partire dalla pubblicazione nel 1936 di Finibus terrae di Luigi Corvaglia. In tempi più recenti una folta schiera di scrittori (salentini, ma non solo) ha dedicato al tarantismo racconti o romanzi. Possiamo ripercorrere temi e percorsi di questo costante intreccio?
Credo che all’origine di queste scritture ci sia la fascinazione per una terra, per un paesaggio, e anche per un costume di ospitalità, di decoro visibile. Fascinazione per l’intreccio tra presenza dell’arte e modo di vivere della gente. Ma per quanto mi riguarda non è il tema o il paesaggio o l’ambientazione che definisce il carattere di una scrittura. E’, come dicevo, la singolarità e necessità del suo stile, della sua forma. Distinguo gli scrittori non per argomenti dei loro libri ma per qualità e profondità della loro scrittura.
Il Salento è ormai un terreno di osservazione privilegiato per l’antropologia internazionale. Anche nel campo letterario il tarantismo attrae sempre più scrittori non salentini. Non crede che si corra il rischio di un nuovo “esotismo”?
Si, credo anch’io che ci sia questo rischio. Ma, appunto, scrittori e poeti che si confrontano davvero con il linguaggio, con il suo attraversamento serio e profondo, sapranno come difendersi dall’esotismo. Sapranno guardare al di là dell’esotico.
Se il tarantismo interessa sempre più scrittori di successo come Francesca Marciano e Roberto Cotroneo, i giovani scrittori salentini sembrano estranei a questo tipo di coinvolgimento. Come spiega questo dato?
Credo sia un dato significativo: dal Salento occorre guardare altrove, oppure occorre guardare nel cuore del Salento, saltando stereotipi, convenzioni, cogliendo un’anima non fissata in formulette, in rituali turistici. Occorre scavare dentro di sé e avere uno sguardo capace di evocare quel che non è offerto alla vista, al consumo degli occhi. In questo senso condivido l’atteggiamento degli scrittori più giovani, pur non appartenendo, ahimè, per età alla loro schiera.
Come giudica il fenomeno della rivitalizzazione del mito del tarantismo e della pizzica in chiave turistico – culturale?
Può avere avuto, o può ancora forse avere uno sua funzione, appunto turistico – culturale. Ma bisogna muoversi al di là di questo, pensare a custodire la memoria, ravvivarla senza adattarla e stemperala e edulcorarla, metterla a confronto con la memoria di altri, vicini a noi o lontani da noi. Tutto sta nell’equilibrio – certo difficile – tra lo sguardo verso la propria cultura e lo sguardo verso altre culture. Uno sguardo che deve essere simultaneo, dialogico. Non fisso su schemi, ma aperto a confronti. E quando si dice cultura bisogna pensare a un ventaglio di linguaggi, fenomeni, espressioni, presenze.
Per leggere una mia ricognizione sui “frammentii salentini” di Antonio Prete cliccare qui