15 maggio 1935. La “rivolta di Tricase”

Il 15 maggio ricorre l’anniversario di quella che Giuseppe Di Vittorio definì “la rivolta di Tricase”, uno sciopero di operaie tabacchine, avvenimento tanto più eclatante perché accaduto in pieno fascismo (quando com’è noto lo sciopero era stato abolito), che finì tragicamente, con cinque morti (alcuni anche passanti per caso) e decine di feriti. Su questa vicenda, molti anni fa, col caro Sergio Torsello, supportati dall’amministrazione comunale dell’epoca, sviluppammo un ampio e ambizioso progetto di ricerca di “storia orale”, che coinvolse anche diverse persone del luogo, finalizzato in primo luogo a raccogliere i racconti di chi, a vario livello, avesse ancora “memoria” degli avvenimenti. Da quel lavoro poi nacque un libro, di cui uscirono due edizioni (una nel 2002 e poi una seconda, riveduta e ampliata, nel 2005). Di seguito trovate uno stralcio significativo dell’introduzione scritta da Alessandro Portelli, che amorevolmente ci guidò nella ricerca. Ricordo poi con affetto una recensione di Rina Durante sul Corriere del Mezzogiorno, che definì il nostro “un libro prezioso”, “che riapre un canale di comunicazione con il movimento contadino, che ridà la parola a chi ha pagato con la sofferenza e a volte anche con la vita per il suo, per il nostro riscatto.” Un articolo, questo di Rina Durante, interessante anche oggi, mi pare, perché contiene anche una riflessione più complessiva non solo su tutto il fenomeno del folk-revival, ma anche sul senso stesso della “memoria” di certi avvenimenti collettivi (e qui l’attualità è fortissima) e del sentirsi parte solidale di una “storia”:

Perché un paese ha la sua storia e deve tenersela stretta, altrimenti perde la sua identità, che non può ridursi al dato etnico. La pizzica, la taranta, il tamburello connotano l’uomo folklorico, dice Sandro Portelli, anche lui nell’introduzione, cioè quello che erroneamente viene considerato individuo astorico, une sorta di buon selvaggio. Ma questa concezione, ancorché sbagliata, è riduttiva, perché non tiene conto della storia, che tutto macina, anche il povero cristo senza potere e speranza di riscatto, e lo investe, lo coinvolge, lo trasforma. Bisogna allora andarseli a cercare, questi momenti di presa di coscienza, in cui il buon selvaggio alza la testa, scende in piazza ed entra nella storia. Scendere in piazza vuol dire sottrarsi all’umiliante rapporto di semischiavitù in cui il padrone lo costringe, ritrovarsi fra simili, fratelli di sofferenze, di fame, di stenti, per gridare insieme, per opporsi insieme. Ma è proprio questo che il padrone non vuole, sia esso fascista o democristiano, e chiama in aiuto la polizia, sempre chissà perché connivente, sempre complice del potere.

di Alessandro Portelli

dall’introduzione a Il Salento Levantino. Memoria e racconto del tabacco a Tricase e in Terra d’Otranto, a cura di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello, ed. Aramirè, Lecce 2005

6094_108450995348_830110348_2068434_7359694_nHa scritto Luigi Chiriatti, uno dei protagonisti della ricerca sulla cultura popolare salentina, che quando per la prima volta venne a Tricase in cerca di canti di tradizione orale, qualcuno gli disse: a Tricase non si canta più dal tempo della strage del 1935, quando cinque persone furono uccise dalle “forze dell’ordine” durante una manifestazione di piazza contro la minaccia di trasferimento del tabacchificio dell’Acait.
 Evidentemente, non è letteralmente vero: anche dopo una tragedia del genere, la vita non si interrompe, la cultura non tace, la memoria non sparisce. Ma è la potente metafora poetica di una memoria soppressa, di un silenzio imposto e interiorizzato. In tutto questo tempo, la tragedia del 1935 e il mondo da cui è scaturita hanno continuato a esistere nella memoria di chi c’è stato, nei racconti familiari (“parlo per sentito dire, dai racconti di mio padre…”, dicono). Adesso possiamo condividere e ascoltare quella memoria anche noi che non c’eravamo: la storia orale apre ai protagonisti uno spazio narrativo, offre un ascolto, un tempo, un canale di comunicazione, che aiutano le loro parole a uscire all’aperto e venire ascoltate. […]
 A Tricase, la notizia dello spostamento dell’Acait fa da detonatore a uno stato di ansia generato da eventi precedenti (la perdita di altre strutture pubbliche), ma forse anche da quella faticosa “normalità” di cui non si riesce a nominare la violenza ma la si sente sulla pelle. C’è chi ci va come a una festa (sono sempre molte le analogie fra le feste e gli scioperi, fa i pellegrinaggi e le occupazioni: le culture popolari trasferiscono da una situazione collettiva all’altra i gesti, gli stati d’animo, le modalità); ma in tanti ricordano, a simbolo di una festa avviata a farsi tragedia, che le luminarie del giorno prima erano state fatte a pezzi.
 Una manifestazione, insomma, è un atto di comunicazione; ma non si danno interpretazioni univoche e rigide. Sono così le narrazioni popolari: contraddittorie, plurali, inafferrabili, sfuggono sempre alla razionalità semplificatrice che le narrazioni dominanti gli vogliono imporre. Sia l’inizio, sia la fine di quella giornata infatti sono dominati da narrazioni egemoniche che attribuiscono un significato solo a eventi che ne hanno molti. 
A monte della protesta, infatti, stanno le tensioni fra gruppi dominanti: lotte di potere, forse tracce di sotterraneo, benintenzionato antifascismo. […] Ma quando la gente va in piazza, ci va con la propria storia e la propria rabbia […]. Ci vanno i maschi, ci vanno i “pazzi di testa,” ci vanno – se ci sono – gli antifascisti, il paese è percorso da un curioso e inspiegabile banditore col tamburo che non si sa chi l’ha chiamato… E il significato della manifestazione diventa altro da quello di chi l’aveva in qualche misura incentivata, perché quando le classi non egemoni parlano per conto proprio i conti sono altri.

Non ci vanno per opporsi al regime, ma il regime se lo trovano contro: qualcuno fra i dimostranti inneggia al duce e al re, ma i fascisti stanno mischiati coi carabinieri. Se c’è un tratto specifico di fascismo in questa storia, è la reazione condizionata per cui la presenza dei cittadini in piazza è di per sé un atto di sovversione, ogni “adunanza” è sovversiva, e quindi, che ci sia l’ordine o che un singolo perda la testa, si finisce inevitabilmente per sparare; che mirino a uccidere o che sbaglino la mira, il morto, i morti, ci scappano sempre. 
Di qui, la sovrapposizione, a valle, dopo i fatti, di un’altra narrazione egemonica con un significato solo: è stata una manifestazione antifascista. Lo dicono la polizia e i carabinieri, ma anche gli antifascisti (le parole di Di Vittorio sulla “rivolta di Tricase”). Il problema è che questa fu e insieme non fu, una manifestazione antifascista: sia l’atto di assumerla dentro la storia dell’antifascismo politico, sia quello di negarle ogni valenza politica riducendola a una tardiva jacquerie hanno torto. Non fu nessuna delle due cose, fu tutte e due, fu di più.

La gente in piazza non si proponeva di rovesciare il regime o, come si dice ancora oggi con parole di allora, di “turbare l’esercizio delle funzioni di governo” e tanto meno di “sovvertire violentemente l’ordinamento economico costituito nello Stato.” Volevano solo assicurarsi di avere da mangiare. Ma il fatto di andarlo a reclamare in piazza viola un’idea di ordine come sinonimo di silenzio e di piazze vuote che si riempiono solo a comando, e diventa un atto intrinsecamente politico. […]
 Nei giorni seguenti, a Tricase si può essere arrestati per aver fatto un capannello in piazza: ogni adunanza è sovversiva, si dà per scontato che nei capannelli si “parli male del partito,” l’atto stesso di parlare, nel regime del silenzio, è un atto politico e contrario al partito. Anche per questo, oggi che il silenzio non è più d’obbligo e che ancora resiste il diritto alla parola, è importante non perdere l’abitudine di utilizzarlo; e la storia orale, che invita a parlare e che ascolta chi parla, è anche per questo uno strumento di democrazia.

Dalle storie raccontate nel libro Il Salento levantino è stato tratto anche lo spettacolo Memorie della terra.  Racconti e canti di lavoro e di lotta del Salento, edito da Squilibri nel 2010.

L’articolo completo di Rina Durante si può leggere qui: http://www.vincenzosantoro.it/pubblicazioni.asp?ID=117

 

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