Casa Di Vittorio: un museo di ricordi

di Leonardo Aucello
da Gargano Nuovo, dicembre 2005

Casa museo. A Cerignola, nella casa natale di Di Vittorio, una raccolta di canti e testimonianze per dar voce ai braccianti-operai del Tavoliere. La riedizione del libro di Rinaldi e Sobrero

Ho conosciuto, seppure indirettamente e di straforo, la prima edizione del volume di Giovanni Rinaldi e di Paola Sobrero nel 2003 quando un mio compaesano, il professor Sergio D’Amaro, ha pubblicato come gadget de “La Gazzetta del Mezzogiorno” nella Collana Ori di Puglia dell’Editore Schena di Fasano, diretta dal famoso scrittore pugliese Giuseppe Cassieri, una bella plaquette intitolata Canti del Tavoliere – Disperazione e riscatto in Capitanata tra Otto e Novecento. In questo volumetto sono riportate più volte testimonianze di braccianti-contadini e alcuni canti popolari compresi nella raccolta La memoria che resta – Vita quotidiana, mito e storia dei braccianti nel Tavoliere di Puglia, Edizioni Aramirè, Lecce 2004, con la Prefazione del regista Alessandro Piva, che è una via di mezzo tra una breve analisi del volume e la descrizione dell’incontro con uno degli autori.

Si tratta di una nuova edizione: la prima, alla quale facevo riferimento, risale al 1981 ed è stata pubblicata dall’Amministrazione e dalla Biblioteca provinciale di Foggia. La raccolta delle testimonianze tendeva da parte di Rinaldi e della Sobrero a un Progetto culturale, quello cioè di creare in Puglia un Archivio della cultura di base, con l’obiettivo di dar voce a chi non ha voce, per dirla con Silone; vale a dire lasciar parlare quell’immensa massa di braccianti e sottoproletariato urbano in modo da narrare direttamente le amare esperienze legate al sudore del lavoro nei campi. La stessa, cioè, che per buona parte del ventesimo secolo, ha costituito le braccia-lavoro delle distese del Tavoliere delle Puglie, soprattutto quelle a confine tra la provincia foggiana e barese.
Il fulcro dell’indagine e del racconto è incentrato essenzialmente su Cerignola, centro agricolo della Capitanata con uno sterminato latifondo circostante, punto di raccordo del bracciantato agricolo delle vaste zone ofantine e dintorni. Ci troviamo di fronte a un paese abbastanza popoloso, amato dal Mascagni nella sua Cavalleria rusticana e che ha dato i natali, non solo al musicista Pasquale Bona, al medico-chimico Galileo Pallotta, e al ministro del Regno d’Italia, Giuseppe Pavoncelli, ideatore del progetto per la costruzione dell’acquedotto pugliese, ma soprattutto ai suoi due figli più noti e apprezzati, Nicola Zingarelli, autore del molto consultato vocabolario della lingua italiana, naturalmente con i continui aggiornamenti e Giuseppe Di Vittorio, segretario nazionale della CGIL dal 1945 fino alla morte nel 1957.

Il volume di Rinaldi e della Sobrero, compilato sotto un’ottica essenzialmente etnologica, ma con riferimenti storici abbastanza particolareggiati, la cui ricerca abbraccia quasi l’intero decennio settanta, consta di due parti: una prima costituita da testimonianze dirette di braccianti, contadini e operai, i quali, in un’età senile, prestano la loro memoria per riannodare il presente con un passato che gli ha visti partecipi di un’epoca che sembra ormai segnare il passo. La seconda, invece, è formata da un’intera sezione dedicata ai canti popolari cerignolani. Di questi ultimi, alcuni, soprattutto quelli a carattere politico, o riferiti al periodo della mietitura e della vendemmia, sono in un certo qual modo autoctoni; mentre altri appartengono alla tradizione più in generale pugliese e sono conosciuti pure nelle zone montane, come quella del Gargano, quali, ad esempio, Mariteme all’Amereca, All’acqua alla fundanella, La mamma de Lucietta ‘eva gilosa, con una variante garganica di Cuncettella e la festa del Primo Maggio.

Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero hanno curato pure il testo autobiografico di Giuseppe Angione, al quale, tra l’altro, gli stessi hanno dedicato un Laboratorio culturale. Si tratta di un bracciante e militante comunista molto attivo, amico di Di Vittorio, oltre che poeta e sindaco di Cerignola. Il titolo del suo libro, dalle reminiscenze del filosofo Campanella, è il seguente: La città del sole. Realtà e sogno di un bracciante. Cerignola, 1982. I due autori hanno pubblicato altri volumi, tra cui Il simbolo conteso. Simbolismo politico e religioso nelle culture di base meridionali, Roma, 1979; oltre ai numerosi Fogli Volanti, Cultura di Base. Mentre Rinaldi ha curato da solo l’opera Primo Maggio. Protagonisti e simboli della festa del lavoro a Cerignola e in Puglia, Cerignola, 1982.
Certamente in tutte queste raccolte, incentrate sull’immagine bracciantile cerignolana, aleggia trionfante, senza dubbio, la figura, come nel testo odierno, di Giuseppe Di Vittorio, grande organizzatore di masse proletarie, un po’ masaniello e un po’ Che Guevara, con l’intuito chiaro di chi ha in mente obiettivi di grande portata, come i diritti umani, sociali e sindacali dei lavoratori. Infatti tutti i protagonisti delle lotte proletarie nell’agro di Cerignola dagli inizi del ventesimo secolo fino agli anni Cinquanta, intervistati da Rinaldi e Sobrero, non hanno fatto altro, appunto, che essere stati fedeli a un unico ideale ed aver operato e lottato a fianco di Di Vittorio, con un ruolo di comprimari, cioè, di una guida attenta e risoluta che ha condotto il bracciantato cerignolano agli onori della cronaca sindacale nazionale.

E proprio a fianco di Di Vittorio, intorno alle organizzazioni locali della Federterra e la Camera del Lavoro, si sono mossi altri braccianti, riscattati culturalmente dalla miseria e dall’analfabetismo dilagante, tra cui il già ricordato Giuseppe Angione, Domenico Di Virgilio, Michele Sacco, Raffaele Pingiali, Antonio Di Giovanni, i poeti-cantastorie come Savino Totaro e Francesco Borrelli, questi ultimi due con le loro macchiette e ballate popolari dialettali, E come vogghie fè, e I sacce nu bbelle cantà addolcivano gli animi stanchi e provati dalla fatiche della moltitudine dei loro paesani.

Dalla parte opposta c’era la Cerignola bene con l’enorme latifondo delle famiglie nobili specialmente i duchi Pavoncelli, risalenti all’illustre concittadino, Ministro, a cavallo dei due secoli, nel periodo pregiolittiano; insieme a loro si ricordano i duchi de La Rochefoucauld, discendenti dell’insigne moralista francese del Seicento, Francois La Rochefoucauld, autore di un libro di Massime, proprietari, questi ultimi, tra l’altro, della famosa tenuta della Masseria Torre Quarto, e distillatori di un vino pregiato locale, ormai, se non erro, scomparso, la cui stoffa aromatica richiamava il sapore dei vini della loro patria d’origine. Vanno menzionati anche alcuni agrari come i Cirillo Farrusi e i Zezza. E in capo a tutti, il nemico numero uno dei braccianti nel periodo fascista, anche lui cerignolano, l’avvocato Giuseppe Caradonna, dalla statura possente, che, pur essendo mutilato di guerra, non solo fece parte della Marcia su Roma nel ’22, a fianco di Mussolini, ma fondò a Cerignola persino una Squadra d’azione, completamente alle sue dipendenze, sempre pronte per reprimere ogni iniziativa operaia dei socialisti e dei comunisti, addirittura nell’intera area del territorio di Capitanata e anche oltre. In ogni loro intervento repressivo, essi ripetevano a squarcia gola slogan del tipo: «Ohè! Per la Mala donna!, noi siamo gli squadristi di Peppino Caradonna!»; oppure: «Manganello, manganello, tu rischiari ogni cervello!».

Ma nell’animo straziato e vilipeso nella loro onorabilità di onesti lavoratori sfruttati, Di Vittorio ripeteva ai compagni la frase di Marx agli operai londinesi a cui rivolse l’invito verso il riscatto socio-politico-culturale: «Proletari, voi siete piccoli perché state in ginocchio! Alzatevi!».
Riflessi repressivi appaiono in molte opere di quel periodo e anche dopo. Un bracciante autodidatta di un paese del Gargano, di nome Antonio Salvato, socialista, in una sua autobiografia intitolata A pietra e a pane racconta che nei primi anni Venti, certi simpatizzanti fascisti del posto, a volte, chiedevano espressamente l’intervento degli squadristi cerignolani, capeggiati appunto dall’onorevole Caradonna per sedare qualche ribellione di lavoratori giornalieri, o semplici salariati agricoli.
In sostanza la città di Cerignola, durante l’era del Duce, assume quindi un duplice aspetto, ognuno dei quali si colloca nel cuore di un’organizzazione esplosiva, come punto di snodo di una doppia entità sociale: una reazionario-repressiva dei fascisti di Caradonna; e l’altra bracciantile riformisto-rivoluzionaria che vedeva nella lotta per i diritti umani e sociali dei lavoratori la bandiera del social-comunismo, emblema del riscatto del sottoproletariato urbano e rurale dell’intera zona del basso Tavoliere, che faceva capo a Di Vittorio e ai suoi collaboratori, ma che abbracciava masse enormi dell’intera zona geografica che si estendeva da Orta Nova, a Stornara, Stornarella, Canosa, Zapponata, Margherita di Savoia, Trinitapoli e San Ferdinando. Ed è proprio questo il vero baricentro della lotta operaia antifascista.

Nella Prefazione al volume autobiografico di Domenico Di Virgilio intitolato Comunista a Cerignola, pubblicato nel 1980 dalla Collana Editoriale Quaderni del Sud Lacaita, Manduria, l’onorevole Michele Pistillo di San Severo, studioso e autore di un’ottima monografia su Giuseppe Di Vittorio, parlando della situazione politico-sociale, a proposito dell’organizzazione bracciantile a Cerignola prima e durante l’epoca fascista, scrive testualmente: «Cerignola è la vera capitale, in Puglia, del bracciantato agricolo. Ai primi del secolo, in questo centro, è concentrata la massa più grande, in senso relativo, di salariati agricoli che ci sia nella regione pugliese. L’83,04% di tutti i lavoratori di Cerignola sono braccianti e salariati agricoli. Quasi tutto il resto è costituito da contadini poveri, con un piccolo pezzo di terra che non si differenziano gran che dai primi. Di contro, vi è una forte concentrazione della proprietà terriera, col 72% della terra coltivabile condotta con criteri capitalistici. Il taglio è netto, la contrapposizione frontale, lo scontro spesso aspro e violento. Contro i braccianti è l’agraria, prepotente e violenta, che non ammette neppure il principio dell’organizzazione dei lavoratori e che farà di tutto per non riconoscere la Lega; è tutta la stampa padronale o ad essa asservita; i diversi poteri dello Stato».

Ma già la cultura ufficiale meridionale, nei primi decenni del secolo, fa sentire la sua voce di protesta contro il sistema borghese latifondista del Mezzogiorno sia al tempo di Giolitti prima che di quello fascista poi con due intellettuali pugliesi di spicco appartenenti all’area socialista massimalista, che diventarono i maitre a penser del Sud contadino, povero e sfruttato dal potere dei grandi agrari, massicciamente diffusi in tutto il territorio meridionale. Ci riferiamo, senza dubbio, a Tommaso Fiore di Altamura, autore di alcune opere storico-letterarie, sulla condizione civile e sociale delle masse proletarie pugliesi, il quale faceva sentire la sua protesta di intellettuale impegnato con la pubblicazione di alcune lettere, meglio conosciute con il titolo, Un popolo di formiche. Precedentemente un altro studioso pugliese controcorrente, già nei primi anni del Novecento ha alzato lo scudo a difesa dei soprusi dei padroni e del sistema politico del potere centrale giolittiano contro le masse contadine del Sud. Si tratta di Gaetano Salvemini di Molfetta, storico di estrazione socialista, che nel 1909 pubblicava la famosa opera Il ministro della malavita; e man mano veniva componendo dei saggi sulla condizione disumana nel Sud, raccolti poi in volume nel 1955 con il titolo di Scritti sulla questione meridionale.

A fianco all’opera dei due pensatori, e di alcuni altri, è apparsa nel tempo, comunque, specialmente negli ultimi trent’anni, una produzione documentaristica di diari, autobiografie, memorie, testimonianze, composta e pubblicata da contadini e braccianti autodidatti, consegnando, così, alle future generazioni la loro piccola ma importante testimonianza di un vissuto storico, pregno di valore sociale e culturale da non sottovalutare: Si ricordano alcuni volumi importanti: dai racconti del medico-romanziere di Trinitapoli, Domenico Lamura, La saggezza di John Spencer, dell’Editore Adda di Bari; al romanzo del suo compaesano, Mauro Crocetta, con Storia di cafoni, della Collana Editoriale Quaderni del Sud Lacaita, Manduria; per continuare con il libro dell’etnologa dell’Università barese Annamaria Rivera intitolato Vita di Amelia, storia di una contadina di Troia; e ancora Mario Tricarico di Torremaggiore con il diario di una Cafone, Violamaro. Oltre, naturalmente ai due volumi già ricordati di Domenico Di Virgilio di Cerignola e Antonio Salvato di San Marco in Lamis.

E per finire, il romanzo di una scrittrice pugliese, prematuramente scomparsa, Maria Teresa Di Lascia Passaggio in ombra, ambientato a Rocchetta Sant’Antonio, che narra la storia di una ragazza negletta dell’Appennino dauno, molto miope e semianalfabeta.

Tutte le anzidette vicende storico-narrative si intrecciano quindi con il movimento operaio-bracciantile di Capitanata.

A queste lotte sociali si richiama dunque la raccolta di testimonianze di Rinaldi e Sobrero, La memoria che resta che è rivolta essenzialmente, più che alle vecchie, alle nuove generazioni le quali, pur rimandando a quegli eroici tempi il proprio nome e le proprie origini, tuttavia esse hanno smarrito il filo della memoria, che appare importante per riannodare i due mondi, quello bracciantile-operaio di una volta con quello postmoderno, multimediale della società tecnologica di oggi.
Ecco perché l’autore, in collaborazione con il Comune di Cerignola, intende trasformare la casa di nascita del sindacalista concittadino, Giuseppe Di Vittorio, in un museo di ricordi, affinché il suo pensiero e la sua opera non vadano smarriti per sempre. E la Cerignola di oggi cerchi in ogni modo di non dimenticarlo.

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