I braccianti di Puglia

di Emanuele Di Nicola
tratto da www.100annicgil.it
10 ottobre 2005

La storia d’Italia è spesso accompagnata dall’aggettivo “ufficiale”, come se questo costituisse un attestato d’importanza, potesse conferirle un valore speciale. Dietro all’istituto di ricerca, però, esiste un sottobosco di investigatori acuti e partecipi, appassionati del loro lavoro, non meno dignitosi di altri.

Sono gli specialisti del primo piano, coloro che non si accontentano dello sfondo e impugnano la lente della ricerca basandosi su eventi locali, voci, volti e persone: La memoria che resta ne è un ottimo esempio.

Partendo dalla realtà circoscritta del Tavoliere di Puglia, analizzandola dai primi del Novecento sino agli anni settanta, i due autori (Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero) intraprendono un percorso decennale (la ricerca è iniziata nel 1974) per articolare, più che un libro, un progetto: “un racconto collettivo, pagine di una storia recente che sembra remota, scritta da noi e da quei braccianti che non ci sono più e vivono nel fondo più raccolto e fiero della nostra memoria”. Seppure il volume si divida in cinque sostanziali capitoli, che ripercorrono condizioni, usi e costumi dei lavoratori pugliesi, la forma cartacea del saggio non è l’unica, e neanche la principale: l’analisi è minuziosamente incorniciata dai racconti in prima persona degli intervistati (soprattutto braccianti, ma anche donne, sindacalisti, attivisti politici), 142 fotografie (dal bianco e nero fino al colore delle più recenti) e due cd audio, che ospitano rispettivamente 23 racconti dal vivo e 42 canti popolari. Come raccontano gli autori, il patrimonio visivo era conservato “grazie alla premura di un sindacalista” alla Camera del lavoro di Cerignola, vera base della loro ricerca: anche se “scartate e cestinate quale materiale inutile” hanno deciso di riportare le foto alla luce, riordinandole in un percorso preciso e minuzioso per squarciare finalmente il velo dell’anonimato.

In apertura di volume, Rinaldi e Sobrero, richiamandosi apertamente agli “storici scalzi” (secondo la tradizione, quei professionisti ostinati ed efficaci ma rigorosamente privi di titolo accademico), espongono i nodi cruciali del loro lavoro: ci tengono a specificare che “non si è voluto in ogni caso privilegiare il rapporto con personalità dotate di qualche carattere di eccezionalità rispetto a quelle comuni”, quindi la parola spetta alla vita quotidiana. Molteplici e sfaccettate si rivelano le questioni di metodo: dal problema dell’interpretazione del ricordo, spesso narrato con gli occhiali della propria parte politica, fino al dislivello, ossia quella rete intricata di piccole incongruenze tra racconti comuni. La stratificazione della memoria, la sua perdita di smalto nel corso degli anni, si coniuga alla soggettività dei narratori stessi; gli scrittori si muovono su questo sentiero complesso, indirizzando la loro ricerca per annotarne i tratti ricorrenti, nello stesso tempo permettendole di spaziare seguendo i suoi percorsi naturali.

Emergono così spaccati di realtà ordinaria, partendo rigorosamente dal tratteggio del contesto: la casa napoletana dei Pavoncelli – artefice dello sviluppo del Tavoliere nell’ultimo trentennio dell’Ottocento – all’alba del nuovo secolo esercita lo strapotere sul territorio (oltre 7.000 ettari in provincia di Foggia, di cui la metà nell’agro di Cerignola), inaugurando un embrionale capitalismo, tra bassi salari e modernizzazione dei macchinari. Da queste premesse affiora una storia di schiene piegate dal lavoro, tra malaria e piccola criminalità, dove i versi di Giuseppe Angione, bracciante e poeta, superano ogni descrizione: “Si moriva per mancanza / d’ogni cosa necessaria / pane, mai nella credenza / della casa proletaria”.

Dalla narrazione drammatica (“scoppiò da noi una malattia chiamata Spagnola che colpì tutto il sesso femminile”) si passa alla considerazione politica (“Mentre la schiavitù era stata abolita dalla Rivoluzione Francese, in Italia il fascismo ripristinò la schiavitù sul lavoro nelle campagne”) e all’amaro dato di fatto (“Ogni giorno due ore in più per Mussolini, il fascista, a beneficio della nazione. … Poi la paga a quanto volevano loro”): talvolta in dialetto, per mantenere la forza della genuinità, tutto viene narrato in presa diretta grazie all’acuta scelta degli studiosi di mettersi da parte, eliminare il loro filtro e affidarsi al gergo della vita vera.

Nel procedere della narrazione la memoria acquista colore: si attraversa la nascita dell’attività politica e la rivendicazione dei diritti di base, che prese le mosse dal Circolo giovanile socialista di Cerignola (1909), laboratorio locale per la lotta di classe. Qui svolse la sua prima funzione organizzativa il bracciante più celebre e amato di Cerignola: Giuseppe Di Vittorio, cui il volume dedica un ampio spazio originale e appassionante. Più che la sua statura politica, seppure costantemente evocata dalla voce popolare, Rinaldi e Sobrero si soffermano sulla percezione del “mito” Di Vittorio nella coscienza popolare: incarnazione di tutte le rivendicazioni operaie, compresa l’ostinata dignità della loro condizione, nonostante i suoi ruoli futuri è una figura squisitamente anti-istituzionale, “legata al primo periodo del sindacalismo rivoluzionario”. Nel rammentare il suo nome, per i lavoratori l’iperbole è dietro l’angolo: l’esaltazione delle qualità personali – in virtù delle quali l’attivista “disdegnava l’altoparlante” per un diretto contatto con la sua gente – si unisce a un’autentica cristologia del personaggio, testimoniata dalle foto d’epoca che affiancano nel focolare domestico l’immagine di Gesù a quella di Di Vittorio. Per gli autori non siamo dalle parti del culto della personalità, ma si tratta di “un evento di fondazione dal quale partire per la realizzazione di aspirazioni riconosciute possibili, di mete ritenute conquistabili”.

La memoria che resta, come detto, vuole aggirare l’eccezione: inevitabile soffermarsi, nella sua ultima parte, sulle tradizioni della massa operaia, dall’accentuata ritualità del Primo Maggio nella “rossa Cerignola” ai canti popolari, elementi di aggregazione ma anche contestazione ideologica (spesso intonati al passaggio di una processione religiosa), di cui sono minuziosamente riportati i testi in dialetto e le relative traduzioni.

Questi tasselli di una realtà riscoperta narrano minuziosamente la storia dell’”altra Italia”, quella disagiata e combattiva delle campagne, regalando valore universale a un fazzoletto di terra; una storia di cui non occorre affatto vergognarsi, come sottolineava Di Vittorio nei suoi discorsi e come ribadiscono gli autori, che attendeva da troppo tempo di essere raccontata. Dunque i racconti si sovrappongono tra realismo e imperfezione, e proprio da questo deriva il loro fascino: il libro non è un comizio ma una libera chiacchierata, le voci – intrecciate secondo diverse modalità (il racconto, la poesia, la canzone) – non vogliono imporsi ma soltanto esprimersi. Non sono eroi questi braccianti pugliesi ma uomini comuni, e come tutti i mortali in questo libro soddisfano la loro massima aspirazione: essere ascoltati.

Uno spaccato di quotidianità che vanta un elemento straordinario: la passione e lo scrupolo di questi due ricercatori che, considerando qualche centinaia di pagine come una gabbia troppo stretta, si sono rivolti ad altri tipi di supporti. Dalla ricerca è stato liberamente tratto lo spettacolo teatrale Braccianti, adeguatamente illustrato nel sito ufficiale, che sta raccogliendo applausi e consensi in giro per l’Italia; nella prefazione del testo il regista pugliese Alessandro Piva, già autore de LaCapaGira e Mio cognato, confessa di essere stato travolto dall’entusiasmo del progetto e annuncia la sua volontà di convertirlo su pellicola.

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