Attenti, la pizzica non basta a fare l’identità salentina

Intervista col grande studioso Georges Lapassade

É un ritorno nella Terra del Rimorso quello di George Lapassade a quattro anni dalla sua ultima visita in SAlento. L’ottantunenne docente francese di etnografia e scienze dell’educazione all’Université Paris 8, esperto di trance e stati modificati di coscienza, è giunto nell’ateneo leccese per parlare di movimenti giovanili e identità locale; ma la sua venuta, e il folto pubblico di studenti e studiosi presente in aula, appaiono come l’ennesima dimostrazione del legame di affetti e di sodalizi scientifici da lui intrattenuto con gli amici di sempre: il sociologo delle religioni Pietro Fumarola, il pedagogista Vito D’Armento , l’antropologo del teatro Fabio Tolledi, lo psicoterapeuta Vincenzo Ampolo. É festa soprattutto questo seminario per lui che, sebbene afflitto da seri acciacchi dell’età, tiene cattedra con incantevole semplicità e disincantata lucidità.

Professor Lapassade, lei ha compiuto diverse campagne di ricerca nel mondo arabo. I drammatici fermenti politici e religiosi dell’Islam in che misura sono cambiati dagli anni in cui lei li studiò da vicino?
«Sono passati più di trent’anni da quando mi recai nel Maghreb l’ultima volta. Pertanto confesso di sapere poco dell’attualità di quell’universo culturale. Ma se lei si riferisce alle confraternite Gnawa che praticano i rituali di possessione della derdeba, sappia che hanno subito la sorte del vostro tarantismo: sono state travolte dalla modernità e hanno perduto molto della loro autenticità».

Sembra di capire che come antropologo lei sta dichiarando estinto – o quasi – un rilevante fatto culturale.
«Il morto è tutt’altro: prendendo spunto da Gérard Althabe, recentemente scomparso, io dico che è la stessa antropologia ad essere morta. Althabe, che non era un antropologo qualunque ma insegnava all’École de Hautes Études e aveva studiato i pigmei e i rituali di possessione del Madagascar, mi disse prima di morire che tutto l’arsenale dell’antropologia andava consegnato ai sociologi, che la disciplina che lo aveva reso celebre non aveva più senso, che le istituzioni accademiche se ne infischiavano degli antropologi. È ancora viva, certo, una sorta di analisi istituzionale; oppure uno studio antropologico della danza, come quello di Rémy Hess. Ma ricerche come quelle che facevamo fino a vent’anni fa, non se ne fanno più».

Può dipendere dal fatto che è finita l’epoca del colonialismo?
«In parte si, per il fatto che la globalizzazione post-coloniale ha pressoché annulato le identità locali. Io non sono tuttavia convinto della produttività delle indigini sulle identità. Un tempo lo ero. Ma che senso ha basare un discorso sull’identità sul fatto che i salentini ballano la pizzica? Mi sembra una spiegazione assai modesta, se si pensa che dovunque nel mondo la gente balla e ricerca stati alterati di coscienza. Anche a Milano avviene, ma nonsi può fondare il concetto identitario di quel contesto unicamente su ciò. Piuttosto si è ribaltato il nostro rapporto con le civiltà extraeuropee. Nel ‘700 era in voga il mito del buon selvaggio; oggi – e voglio citare Il mito dell’adulto che fu il mio primo libro – scopriamo che l’incompiutezza e l’instabilità sono in realtà appannaggio delle società occidentali. L’adulto è un’illusione. Abbiamo scoperto la nostra natura acerba e adolescenziale dopo la demolizione delle istituzioni operata nel ’68 dal movimento studentesco, ma anche dopo il fallimento dello slogan “l’immaginazione al potere”. Insomma siamo noi occidentali a essere rimasti degli eterni adolescenti. Mi rendo conto che il mio è un enunciato alquanto poetico, ma è paradossale. Preferisco restare animato da questi paradossi; e semmai conservare, come unica certezza, l’atteggiamento del dubbio cartesiano».

Può spiegare meglio la sua critica dell’identità?
«Voglio dire che quando “entra in ballo lo sballo”, cioè quando abbiamo a che fare con la dissociazione, le coordinate identitarie esplodono, la costruzione di una certezza dell’appartenenza va in frantumi. L’attenzione ai comportamenti sociali dissociativi viene da molto lontano, dalla neuropsichiatria positivista; o forse ancora da molto più lontano, come pensa il mio amico Fumarola, cioè da Eraclito. E cosa gliene importava a questo filosofo greco dell’identità locale?»

Si, ma oggi? Ammetterà che c’è un nuovo tribalismo.
«Oggi il concetto di identità locale si avvicina pericolosamente a quello di etnia. Ai tempi di Malinowski ogni isola o villaggio era ritenuto caratterizzato da una propria identità. Ruth Benedict individuò tre isolotti del Pacifico vicinissimi fra loro ma dotati di culture agli antipodi. Questo interesse per le differenze era il fondamento dell’antropologia. Attualmente, invece gli ultimi antropologi come Amselle tendono a distruggere i feticci di etnia e identità perchè li considerano elementi soprattutto culturali e non fisiologici o razziali. Non esistono più le frontiere e le nicchie classificatorie che l’antropologia fisica aveva costruito: il pianeta è ormai piccolo, la globalizzazione regna sovrana. Un esempio clamoroso? L’etnografia coloniale aveva affermato che nel Mali esisteva un’etnia maggioritaria, quella dei Bambara. Poi si è scoperto che la parola bambara vuol dire “schiavo”, e che questa popolazione costrutita a tavolino praticamente non esisteva. É preferibile dunque parlare di etnicizzazione, poichè oggi le identità culturali sono di volta in volta adottate, rifiutate, mutate, scelte. Un altro esempio: gli arabi di Francia, i figli degli immigrati, sono una costruzione nuova, un soggetto diverso da quello del Maghreb d’origine, una mescolanda inedita e vitalissima di Tunisia, Algeria, Marocco. È si un soggetto politico che pesa sull’esito delle elezioni, ma non è un’etnia. Chi lo pensasse sbaglierebbe esattamente come chi ritiene che i salentini contemporanei siano quelli dell’antichità».

tratto La Gazzetta del Mezzogiorno
di Gino L. Di Mitri
pubblicato il 14/05/2005

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