In un libro le storie delle tabacchine

dal Corriere del Mezzogiorno – di Rina Durante

«Noi qua sotto, per il fatto che le terre sono grasse, abbiamo il tabacco “levantino”, che non è altro che un tabacco molto forte e robusto, ma nello stesso tempo profumato, mentre i tabacchi cosiddetti Burley, Bright, Maryland, Kentucky, li senti i nomi americani, perché il tabacco è nato in America, non l’abbiamo inventato noi…». È l’intervista ad Antonio Piscopello, operaio e sindacalista, la prima del volume Tabacco e tabacchine nella memoria storica, a cura di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello, Piero Manni Editore, Lecce, che è stato recentemente presentato a Roma, da Sandro Portelli e Erri De Luca, al Circolo «Gianni Bosio». Il libro è il risultato di una lunga ricerca sul campo di testimonianze orali, raccolte prima che sia troppo tardi, prima che il tempo, la vecchiaia e la morte cancellino la memoria di quella che fu la più grande filiera produttiva della provincia di Lecce.
Il libro ricostruisce la storia delle tabacchine, dell’industria del tabacco nel Salento, della protesta e della repressione, con particolare attenzione all’episodio più drammatico, quello del maggio 1935 a Tricase, in cui morirono cinque lavoratori, sotto i colpi dei carabinieri.
Si chiamavano Maria Nesca, Pierino Panarese, Cosima Panico, Pompeo Rizzo e Donata Scolozzi. Li cita nell’introduzione l’attuale sindaco di Tricase, Antonio Coppola, perché, dice, quei nomi non sono, non vanno dimenticati. Un paese vuole far sapere che esiste, ad onta della lontananza e del tempo, e che ricorda il suo passato, le fasi salienti di una storia.
Perché un paese ha la sua storia e deve tenersela stretta, altrimenti perde la sua identità, che non può ridursi al dato etnico. La pizzica, la taranta, il tamburello connotano l’uomo folklorico, dice Sandro Portelli, anche lui nell’introduzione, cioè quello che erroneamente viene considerato individuo astorico, une sorta di buon selvaggio. Ma questa concezione, ancorché sbagliata, è riduttiva, perché non tiene conto della storia, che tutto macina, anche il povero cristo senza potere e speranza di riscatto, e lo investe, lo coinvolge, lo trasforma. Bisogna allora andarseli a cercare, questi momenti di presa di coscienza, in cui il buon selvaggio alza la testa, scende in piazza ed entra nella storia. Scendere in piazza vuol dire sottrarsi all’umiliante rapporto di semischiavitù in cui il padrone lo costringe, ritrovarsi fra simili, fratelli di sofferenze, di fame, di stenti, per gridare insieme, per opporsi insieme. Ma è proprio questo che il padrone non vuole, sia esso fascista o democristiano, e chiama in aiuto la polizia, sempre chissà perché connivente, sempre complice del potere.
In questo libro parlano i contadini, gli operai del Salento, soprattutto le donne, con le loro parole, che per quanto approssimative (sono comunque tradotte in lingua), danno la percezione diretta e a volte sconvolgente di quello che è stata l’industria del tabacco per loro: da una parte, occasione di lavorare per la prima volta fuori di casa, fuori del proprio campicello o di quello altrui, di portare a casa quattro soldi; ma dall’altra, per quella paga, quante umiliazioni: vietato parlare, vietato il ritardo, ispezioni corporali per evitare che qualcuna di porti con sé una foglia di tabacco, un oggetto anche insignicante della fabbrica. Le maestre, come kapò, intansigenti fino alla crudeltà.
È un libro prezioso, questo, che riapre un canale di comunicazione con il movimento contadino, che ridà la parola a chi ha pagato con la sofferenza e a volte anche con la vita per il suo, per il nostro riscatto.

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